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Interview of Guilio Argan

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1. Transcript

1.1. CASSETTA NUMERO: I, LATO UNO
21 MAGGIO, 1991

ARGAN
Le prime memorie sono mediche perchè mio padre era impiegato nell'ospedale psichiatrico. Allora si chiamava "Manicomio di Torino." Avevamo l'alloggio interno. Quindi, fin dalla prima giovinezza, ciò che io vedevo ovunque, affacciandomi alla finestra della mia camera, uscendo dal nostro alloggio, era qualcosa che aveva a che fare con l'anomalia mentale, con forme di vera e propria follia. C'erano tra l'altro alcuni dei ricoverati, o meglio delle ricoverate, perché l'ospedale torinese era soltanto femminile, che frequentavano casa nostra, facevano piccoli servizi, e quindi l'esperienza di questo mondo estromesso dalla vita ordinaria, io l'ho fatta. E naturalmente, come era logico in un ragazzino, la mia ammirazione, il mio ideale umano erano i medici del manicomio, tanto più che li vedevo ogni giorno. Il nostro alloggio era proprio accanto all'alloggio dei medici di guardia, dove si alternavano i medici di guardia. Tutte le sere il medico di guardia veniva da noi, prendeva il caffè, si chiacchierava con mio padre. E noi, mia sorella e io, eravamo fino a una cert'ora presenti. Per cui conobbi questo mondo di medici, ed ebbi così un'esperienza che forse può essere ricordata. Uno di questi medici si accorse che la presenza della malattia mentale era pericolosa per me, forse stava producendo qualche effetto negativo sulla vita di un adolescente, e approfittando del mio interesse per la medicina mi disse un giorno che andassi ad aiutarlo in laboratorio a fare delle schede, poi d'improvviso mi fece indossare un camice bianco e mi portò in una stanza dove c'era un'autopsia. Ecco, Signora, io credo che quel camice bianco mi è rimasto addosso per tutta la vita e ha costituito uno degli elementi irrazionali del mio razionalismo.
PASSERINI
Bellissima storia.
ARGAN
A questo debbo aggiungere come influenza più vicina, un fratello di mio padre, che era avvocato e aveva interessi intellettuali, aveva una bella biblioteca, di cui poi purtroppo una grossa parte fu distrutta dai bombardamenti ma una parte minore l'ho ancora io, e fu lui a farmi leggere per la prima volta [Benedetto] Croce. Lui era regolarmente abbonato a La Critica di Croce, per cui molto presto cominciò il mio apprentissage crociano, che si confermò-- Prego.
PASSERINI
No, siccome stavo parlando di influenze da parte di padre, mi domandavo da parte di madre se c'erano delle influenze di qualche tipo.
ARGAN
Signora, da parte di mia madre--mia madre era una maestra elementare, però con una sensibilità morale molto sottile, ed era--pensi che, essendo mia madre molto devota, avendole io detto ancora ragazzino che non desideravo avere nessun rapporto con la chiesa, mia madre non solo non esercitò alcuna pressione, ma arrivò alla discrezione che ancora quando io ero all'università mi diceva: "Domani tu hai quell'esame--non so, diciamo di latino o di greco--difficile permetti che faccia la comunione per il tuo esame?"
PASSERINI
Squisita. Quindi una figura anch'esse importante nella sua formazione.
ARGAN
È stata molto importante. Molto importante. Devo dire, riconosco tuttora delle analogie di carattere con mia madre. Poi avevo una sorella, ma ci siamo veduti poco, perché io lasciai presto Torino: subito dopo la laurea lasciai Torino. Purtroppo mia sorella è morta molti anni fa. Lei stava a Torino, io a Roma e non ci siamo molto frequentati. Come esperienza liceale, io ero al Liceo Cavour: ecco, forse il professore che ebbe maggior influenza, i professori che ebbero maggior influenza su di me furono due: uno il professor Lemmi, che poi ebbi anche come professore all'università, perché passò all'università professore di storia del Risorgimento, che mi diede le prime lezioni di antifascismo.
PASSERINI
Però già la Sua famiglia aveva un clima--?
ARGAN
No, aveva un clima cattolico ma di grande timore nei confronti dei passi sbagliati che potevamo fare noi. Mai ci è stato richiesto di essere fascisti, ma mai nemmeno ci è stata fatta scuola di antifascismo, quella la ebbi--
PASSERINI
No, dico, questo zio crociano--
ARGAN
Questo zio era antifascista, mai iscritto al partito. Sì ecco, questo sì, senza dubbio. E poi fu puesto professor Lemmi, che fu mio professore in liceo, e poi vinse il concorso universitario proprio l'anno in cui io presi la maturità classica, per cui me lo ritrovai all'università. Altra persona che ebbe su di me una forte influenza, questa più diretta anche per la mia professione di storico dell'arte, fu Giusta Nicco, che era giovane e graziosa professoressa di storia dell'arte quando io feci i primi anni del liceo. Naturalmente ricordo queste persone con molta gratitudine e molto affetto anche perchè sono rimaste persone amiche anche dopo l'università. Esperienze più approfondite le ebbi quando cominciai a interessarmi ai problemi dell'arte. Naturalmente in una prima fase mi interessai credendo di dover fare l'artista, di dover fare il pittore. Per cui mi misi a dipingere, a frequentare le mostre, a frequentare qualche artista che avevo occasione di conoscere. E pensi che arrivai perfino, essendo in seconda liceo, a trovarmi un quadro accettato alla--a una mostra della Promotrice, ed esposto, né più né meno, perché lui lo volle, nella sala di [Felice] Casorati, che era per noi a quel tempo la voce della modernità in arte. Ricordo che quell'anno, credo che fosse il 1926 ma non ne sono certissimo, la Promotrice [delle Belle Arti] festeggiò il più giovane al vernissage--il più giovane e il più vecchio degli espositori. Il più vecchio era Vincenzo Gemito, il più giovane ero io. Quindi presi la licensa liceale, la maturità classica, e aderendo alla preghiera molto viva di mio padre, mi iscrissi a Legge, perchè mio padre temeva che facendo il pittore avrei fatto la fame. Aveva tutti i motivi per crederlo. Mi iscrissi a Legge, finché un giorno entrai così, per gusto di esperienza e niente di più, nell'aula dove Lionello Venturi faceva lezione sugli impressionisti, vidi sullo schermo l' Olympia di Manet e giurai che non avrei più toccato né una matita né un pennello, perché la pittura che mi interessava era quella e non la mia. E infatti non toccai più una matita né un pennello. All'università feci subito gruppo con Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Enzo Monferini, Norberto Bobbio, Arnaldo Momigliano, Massimo Mila. Era il nostro gruppo, tutto tendenzialmente antifascista, che guardava come guide a tre persone che erano con noi molto amichevoli: Giacomo Debenedetti, Carlo Levi e Franco Antonicelli. Io, naturalmente, mi entusiasmai delle--delle lezioni di Lionello Venturi, e decisi per il momento di studiare soprattutto storia dell'architettura, per non cedere a quella possibilità di giudizio empirico da uomo del--di mestiere che potevo avere nel caso della pittura: "Ah, questo è ben dipinto" e fermarmi a quel punto. Feci la mia tesi di laurea sull'architettura, precisamente sul Trattato d'Architettura di Sebastiano Serlio, e fu il primo scritto su Sebastiano Serlio, dopo secoli sarei per dire, di oblio.
PASSERINI
Quindi fu una scoperta Sua in un certo senso?
ARGAN
Bèh, Venturi mi aveva assegnato come tema di laurea i teorici dell'architettura del '500. Quando io lessi il Trattato del Serlio, mi accorsi che aveva una quantità di problemi, soprattutto in funzione del nascente Manierismo come nessun altro dei teorici che avevo avvicinato. Quindi io feci--scelsi come unico argomento il Serlio. Però devo dire che fin dall'anno precedente, quando ero in terz'anno, ebbi due esperienze che cambiarono il corso della mia vita e la decisero. La prima fu che essendo--avendo Lionello Venturi, avendomi dato un'esercitazione, una delle normali esercitazioni che si facevano prima dell'esame biennale, su [Andrea] Palladio, io scrissi questa esercitazione, la portai a Venturi. Si doveva discutere mi ricordo il mercoledì successivo, mercoledì Venturi non ne parlò. Io pensai che l'avesse giudicata così orrenda de non poterne nemmeno parlare. Timidamente mi avvicinai e lui mi disse: "L'ho già passata a L'Arte per pubblicarla." E fu pubblicata nell'aprile del 1930, quando io ero ancora in terz'anno. Erano passati due mesi ed ero nella mia casa del manicomio, intento a lavorare alla laurea, quando sento suonare il campanello. Vado ad aprire e c'era un piccolo signore che con accento straniero mi chiede: "Lei signor Argan?" "Sì! Ma dico, forse Lei cerca mio padre, mio padre è nell'ufficio." "Ma Suo padre storico dell'arte?" "No, mio padre non è storico dell'arte." "Chi scritto saggio su Palladio?" "Ah, quello l'ho scritto io." "Piacere: Erwin Panofsky."
PASSERINI
Oh, no! [risata]
ARGAN
A casa venne a cercarmi nemmeno--va be' telefono non l'avevamo allora! Allora stetti con Panofsky, lo accompagnai per tutta Torino, abbiamo stretto un'amicizia profonda. Ci scrivevamo, lui era ancora professore ad Amburgo, io gli scrivevo, Alterabendstrasse no. 14, me lo ricordo ancora. Poi lui lasciò la Germania naturalmente, andò in Inghilterra, poi andò in America, e naturalmente i nostri rapporti furono interrotti perché-- E si ripresero dopo la guerra. Posso dire che ho debolmente, in parte, pagato il mio debito perché la prima cosa che feci quando fui chiamato all'Università di Roma fu di dare la laurea Honoris Causa a Panofsky. Venne, fu il suo ultimo viaggio in Italia. Siamo rimasti ancora qualche tempo in corrispondenza, finché avendo io deciso di fare la rivista Storia dell'arte , quella che tuttora esce e tuttora dirigo con La Nuova Italia, scrissi a Panofsky chiedendogli se mi dava un contributo per il primo numero, e ho ricevuto una lettera di poche righe che mi diceva "Sorry, but I am terribly ill." E poi sotto era agg--questa era scritta a macchina--e sotto, a penna, "Adieu, Panofsky."
PASSERINI
Però è stato un bellissimo incontro! La forma in cui è avvenuto.
ARGAN
È stato--le dico ha cambiato la mia vita. Ha cambiato la mia vita in più sensi, uno-- Vede io mi commuovo a parlarne.
PASSERINI
Eh ma è commovente. Anch'io lo trovo commovente.
ARGAN
Uno, l'ha cambiata, nel senso che, così è stato un grande riconoscimento per me. Ma anche perché ho capito qual era l'obbligo di civiltà che danno gli studi. Quest'uomo che viene dalla Germania e va a cercare un ignoto--poi scoprì che ero un ragazzo--uno per lui ero comunque un ignoto-- Va a cercarlo a casa. Questo mi è parso una cosa di una tale civiltà! Infatti questo ha avuto come effetto che quando--subito dopo la laurea, perché ero allora in terz'anno, poi feci la laurea quando fu aprile--Venturi mi chiamò e mi disse in confidenza che mi affrettassi a finire la laurea perché lui avrebbe lasciato l'Italia subito dopo la fine dell'anno accademico. Io feci la--la laurea, naturalmente con tanto successo, e feci il concorso per la borsa di studio triennale al Perfezionamento di Roma. Era una borsa sola per tutta l'Italia, e la vinsi e venni quindi a Roma con [Pietro] Toesca. Frequentando ancora Adolfo Venturi, il vecchio padre di Lionello, il grande storico, che però era ancora vivente e anche molto attivo, e Pietro Toesca. Sono state anche quelle esperienze importanti per me: con Adolfo Venturi direi soprattutto di carattere sentimentale, perché quell'uomo aveva per me non l'affetto dei padri per i figli, ma dei nonni per i nipoti: un affetto senza responsabilità, tutta tenerezza. E Toesca che era da un punto di vista metodologico molto lontano da me, perché a me interessavano i problemi concettuali, mentre a Toesca interessavano soprattutto i problemi filologici. Fu tuttavia estremamente aperto. Mi volle come suo assistente e siamo rimasti amici fino al giorno della sua--della sua morte. Tornando un po' indietro, il gruppo torinese col quale io strinsi amicizia aveva sì un orientamento quasi direi religiosamente crociano, con l'eccezione di Enzo Monferini, che ha scritto pochissimo, ma è una delle persone più intelligenti che io ho conosciuto nella mia vita--ora purtroppo è morto da molti anni--perché aveva quel tipo di intelligenza che direi un po' ebraica, nel senso di essere estremamente critico, di una penetrazione critica proprio a trapano, con in fondo un disinteresse costruttivo che io un po' biasimavo, e un po' invidiavo perché era quell'interesse disinteressato alla cultura, quello che non si preoccupa: "Adesso prenderò la cattedra, farò questo, farò quest'altro." Questo Enzo Monferini--il padre è l'attuale soprintendente alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna--Enzo Monferini visse e morì, con l'interruzione razziale, visse e morì come professore di liceo. Ma ancora gli studenti di liceo che son stati suoi allievi a Roma le ricordano con entusiasmo perché era un uomo che apriva la testa del prossimo. Su quell'occasione--naturalemente attraverso quel gruppo, e attraverso una nostra compagna di università che era amica di casa Croce, Malvano--
PASSERINI
Ah, sì, è un nome noto.
ARGAN
Incontravamo molto spesso il Croce--
PASSERINI
Si riferiva a questo quando prima io l'ho interrotta, Lei stava dicendo: "L'orientamento crociano mi fu confermato in seguito?"
ARGAN
Ecco: fu confermato dal crocismo di Lionello Venturi e dal fatto che Croce era la bandiera degli intellettuali antifascisti, e degli intellettuali di quel tempo, che erano intellettuali, diciamo così di impostazione al massimo gobettiana, ma che noi-- Io ho letto Gramsci dopo la guerra, perché prima era impossibile leggerlo, ché non si trovava, non c'era la possibilità di procurarselo altre tutto. E Croce, un po' per l'atteggiamento conforme al suo pensiero, e un po' credo per un senso di precauzione paterna nei nostri confronti,--sì--ci esortava ad avere una coscienza lucida di quello che accadeva e della sua negatività, ma cercava di dissuaderci dal prendere posizioni drastiche. Ricordo che un giorno disse a me, evidentemente non ricordava che io ero storico dell'arte, credeva che mi occupassi di letteratura, e mi disse: "Volete fare l'antifascista? Scrivete un bel saggio sul [Torquato] Tasso."
PASSERINI
Ah, ho capito: l'idea era quella.
ARGAN
Era la reazione alla volgarità culturale del fascismo. Però Signora, devo dire, che questa fu la posizione di tutti noi. Noi siamo cresciuti ignorando che esistesse un problema operaio. Non esisteva, non lo conoscevamo, era estraneo completamente alla nostra esperienza. Siamo--il nostro antifascismo era, come nel caso del Croce, un antifascismo di disgusto per la volgarità culturale. Cominciò ad assumere una colorazione morale al tempo della guerra d'Etiopia. Questa colorazione morale si intensificò molto al tempo della guerra di Spagna, è diventata odio e volontà di agire con la guerra--l'alleanza con la Germania, con tutto ciò che l'alleanza con la Germania ha comportato. Perché la Germania obbligava i suoi alleati, soprattutto i suoi alleati ossequenti com'era l'Italia, a partecipare delle sue peggiori nefandezze, forse per assicurarsi una complicità. Quindi ci impose una campagna contro gli ebrei che nessuno in Italia sentiva. Anzi: i rapporti erano perfino di preoccupata--preoccupato ossequio. Io mi ricordo che quando io ero ragazzo e giocavamo in campagna a Cavoretto, dove avevamo una casa con i nostri amici Luria, uno dei quali è il grande-- Uno dei quali è il grande premio Nobel, vero--? Non c'è nulla di--di meno che--meno che rispettoso, ma sembrava un modo corrente, un modo non riguardoso, e fu proprio quel senso di complicità che ci spinse dalla parte opposta. Poi venne la guerra, venne l'occupazione tedesca, che ovviamente obbligò tutti a prendere una posizione. Non era possibile in quel momento non prendere una posizione. Ovviamente noi ci siamo legati alla Resistenza. Qui a Roma non era--a Roma è durata troppo poco l'occupazione tedesca per dar luogo a un movimento di resistenza esteso ed organizzato. C'era l'azione eroica dei GAP [Gruppi di Azione Patriottica] comunisti, ma all'infuori di questo era tutto lavorio di stampa, di diffusione di notiare. Anch'io non ho fatto altro per carità che questo lavoro di stampa. Però fu in quella occasione che abbiamo preso coscienza del mondo operaio, il quale aveva una iniziativa politica molto--infinitamente più forte della nostra in quel momento. E allora abbiamo capito che erano politicamente più avanti di noi. Infatti io fin dal--ancora essendoci la guerra--mi iscrissi a quello che allora si chiamava, era clandestino naturalmente, il "Partito Socialista di Unità Proletaria." Rimasi in quel partito parecchio tempo dopo la guerra, quando passai--quando per un dissenso che ebbi a proposito della sovvenzione di Stato alle scuole private, alle quale io ero contrarissimo e il Partito acconsentiva--uscii dal Partito Socialista e mi legai--perché ero molto amico suo, avevo per lui una ammirazione profondo--con la sinistra indipendente di Ferruccio Parri.
PASSERINI
Nel frattempo non aveva avuto rapporti con [Pietro] Nenni, il quale di queste organizzazioni era--
ARGAN
Come socialista. Sì, sì, il Partito Socialista di Unità Proletaria scomparve con la fine della guerra, divenne il Partito Socialista. Io ebbi repporto con Nenni, certo, e lo ammirai molto. Inoltre, io allora non mi sarei potuto inserire nel Partito Comunista per il fatto che purtroppo, in fatto di arte aveva una posizione che io non potevo in nessun modo condividere. Capivo che questo rientrava non in una linea teorica fortemente impegnativa, rientrava nei limiti della cultura di [Palmiro] Togliatti, che erano gli stessi limiti della cultura di Benedetto Croce. Perché, Signora, a dirci che [Arthur] Rimbaud era un esempio di stupida disumanità, a dirci che fecero bene a far fuggire, a far andar via Mallarmé da Besançon perché anche Platone diceva che le città devono scacciare i cattivi poeti! Queste cose le abbiamo lette nei libri di Croce, non ce le ha dette Mussolini, il Fascismo, che per la verità ignorava completamente chi fossero sia Mallarmé che Rimbaud e non potevano dirne né bene né male. Anzi questo limite crociano è quello che corresse in noi Lionello Venturi. Crociano, come scelta politica e anche come impostazione idealistica generale, ma naturalmente non poteva accettare le cose che Croce ha scritto sull'arte figurativa, soprattutto nel libro sul Barocco, dove si dicono cose terribili su Caravaggio, come se fosse un retore e nient'altro. E allora Croce--fu Lionello Venturi che ci indusse a leggere [Heinrich] Wölfflin, a leggere [Alois] Riegl, a leggere Panofsky--ci avvicinò alla corrente di pura visibilità e all'iconologica che ne discendeva con apparente contraddizione, ma con una consequenzialità che credo quasi necessaria-- Dunque, la guerra--
PASSERINI
Posso fare un'altra domanda?
ARGAN
Prego, Signora.
PASSERINI
Due domande: una, se Le è possibile, se vuole, commentare brevemente il Suo rapporto, personale anche, con il Suo maestro Lionello Venturi, e l'altra è una domanda, pensando a quello che ha detto Norberto Bobbio, che non è esistita una cultura fascista. Se lei è d'accordo con questo giudizio.
ARGAN
Perfettamente d'accordo. È esistita un'ignoranza fascista cioè un tipo di ignoranza proterva invece che di ignoranza umile, ma non è esistita una cultura fascista. Le persone che possono sembrare averla rappresentata--perché lo abbiano fatto, non lo so, però non mi sento di chiamare fascista la filosofia di Giovanni Gentile e non mi sento di chiamare fascista Giuseppe Bottai, che, volendo e dovendo essere sincero, è stato il miglior Ministro della Pubblica Istruzione che io ho conosciuto nella mia lunga vita. Quindi non è esistita una cultura fascista. È esistita la buona fede, o comunque il tentativo di giustificazione di persone della cultura che si erano legate al Fascismo e volevano trovargli una giustificazione, come forse fu il caso di Gentile. Ma non si può parlare di cultura fascista. Il mio rapporto con Venturi: ecco, quel libro, Lei vede lì, quel Cézanne, è di Lionello Venturi, è apparso postumo da Skira e porta una mia prefazione. Perché la signora Skira, che era la figlia di Lionello Venturi, la Rosa Bianca Venturi, tuttora vivente, sapendo i rapporti col padre, e sapendo che il padre desiderava che a presentare i suoi libri fossi io. Così, come io oggi mi faccio fare le prefazioni dai miei allievi.
PASSERINI
Una bella idea.
ARGAN
E bella, molto ambiziosa eh! Sembra generosa, ma è molto ambiziosa. Quella prefazione comincia esattamente con queste parole: "Nei confronti di Lionello Venturi ho un solo rimorso, gli ho voluto molto bene, ma lui me ne ha voluto di più." Perché Lionello Venturi aveva nei nostri confronti, di tutti gli allievi, si può dire specialmente nei miei confronti, perché io credo che molto presto mi abbia un po' eletto come il suo successore. Lionello Venturi è stato un uomo di un grande coraggio morale, perché non aveva una struttura mentale che lo portasse necessariamente a essere antifascista. Non si era mai occupato di politica. Inoltre era un uomo che aveva fatto da volontario la Prima Guerra Mondiale, aveva due medaglie d'argento. Insomma, poteva anche essere legato a quel suo passato, ed era, credo, legato a quel suo passato, finché si persuase che quel passato non seguitava, era semmai tradito dal Fascismo. Allora si intensificò il suo rapporto con Croce, estese la sua esperienza filosofica, perché quella di Croce era proprio insufficiente alla nostra disciplina di storici dell'arte, e ci orientò in quel-- Poi andò a Parigi.
PASSERINI
Ho letto che Lei andò a trovarlo.
ARGAN
Io andai a trovarlo, fui visto dalla polizia, ho avuto delle storie, per cui mi trasferirono da Torino, dove io ero impiegato alla Pinacoteca da pochi mesi, a Trento, dove però non andai, perché Pietro Toesca, senza dirmi nulla, e senza che io gli chiedessi nulla, è andato da Gentile che era direttore--dirigeva l'Enciclopedia Treccani di cui Toesca era uno dei redattori--e gli ha detto che va bene, se io non potevo stare a Torino mi mandassero però in un posto dove potessi studiare. Perché era una persona che aveva interessi e attitudini di studio. Gentile, che non mi conosceva affatto, afferrò--afferrò il telefono ed impose a [Francesco] Ercole, Ministro della Pubblica Istruzione, di mandarmi dove voleva, in un posto dove io potessi studiare. A quel punto, Cesare Brandi--che era già mio amico, ed era ispettore alla Sopraintendenza di Bologna, dove era molto apprezzato dal Sopreintendente Calzecchi, il padre della traduttrice dal greco--Brandi dirigeva lui internalmente la Pinacoteca--la biblio--la Pinacoteca Estense di Modena e rinunciò perché potessi prenderla io. Allora esistevano questi gesti di amicizia profonda tra studiosi, oggi, purtroppo, molto meno. Io stetti a Modena finché fui comandato a Roma presso questo organismo nuovo che avevano fatto; cioè, eravamo tre funzionari comandati che hanno costituito il primo nucleo dell'ispettorato centrale. Il mio rapporto con Venturi divenne particolarmente stretto, naturalmente, dopo il suo ritorno dall'America in Italia, prima che finisse la guerra, subito dopo la liberazione di Roma. Ritornò a Roma, ebbe la cattedra all'Università di Roma, si dedicò con un impegno molto intelligente a quella che pareva la possibile ricostruzione di una cultura europea, e dell'inserimento dell'Italia in una cultura europea. Lo ha fatto veramente con un impegno completamente disinteressato, riconoscendo tutti quelli che erano stati i valori della cultura e dell'arte che si erano conservati durante il Fascismo. Di qui l'amicizia di Venturi con Giorgio Morandi--con molti altri oltre a Morandi, cito il più grande--che era cioé molto amico nostro, molto vicino a noi. Poi Lionello Venturi adoprò la sua autorità per iniziare, aiutare Siviero, che era un patriota, un partigiano che si dedicava al recupero delle opere d'arte portate via dai Tedeschi. Lui lo appoggiò ed effettivamente molte cose si ritrovarono, poterono essere riportate in Italia. Quindi Venturi non ha avuto nessuna rivalsa personale, ma la volontà di creare un equilibrio culturale avanzato, non certo in senso comunista, in senso socialista, anzi più socialdemocratico, liberalsocialista. Poi lui naturalmente lasciò, andò in pensione e rimanemmo vicini per quei pochi anni ancora che ebbe di vita, fino al giorno di Ferragosto del 1961, quando morì all'istante. Io fui una delle prime persone che gli giunsero vicino. Lionello Venturi. Vede Signora, non so ora scrivere un libro qui è difficile. Il libro che ho scritto su Michelangelo Architetto mi è costato una fatica enorme, perché anche se si può ancora lavorare, come io posso ancora lavorare pur avendo ottantadue anni, insomma manca--ci si ripete, si ricade nelle cose che si sono già dette, è molto penoso. Si possono fare cose brevi, cose lunghe--è impossibile. Però se ci riesco, voglio fare ancora un libro proprio su Lionello Venturi e sul pensiero di Lionello Venturi. Einaudi insiste molto perché io lo faccia, e con ogni probabilità, con ogni probabilità, lo farò certamente se vivrò.
PASSERINI
Io spero proprio che Lei lo faccia.

1.2. CASSETTA NUMERO: I, LATO DUE
21 MAGGIO, 1991

ARGAN
Naturalmente l'esperienza vissuta durante la guerra e immediatamente dopo la guerra mi ha portato molto vicino al Partito Comunista. Conobbi Togliatti, conobbi molti allora del Partito, e se non mi iscrissi fu perché, come Le dissi, avevano quell'orientamento culturale che io non potevo assolutamente condividere. Passai come Le dicevo nella sinistra indipendente di Parri. Nel '75 io ebbi un infarto gravissimo, per cui dopo che già ero fuori pericolo per alcuni mesi, stavo seduto in poltrona, non potevo muovermi. Venne Ferruccio Parri a trovarmi qui, proprio in questa stanza, a chiedermi di essere Senatore della Sinistra indipendente. Io gli dissi che non me lo sentivo assolutamente, non potevo prendere nessun impegno di lavoro, ero in uno stato di grande debolezza. Al che, lui mi disse: "Ma noi vorremmo avere il tuo nome. Portati almeno nel Consiglio Comunale. Lì non avrai niente da fare se non quella volta che vuoi andare a parlare dell'urbanistica romana. "E vabbè, portatemi." Mi portarono al Consiglio Comunale e io vinsi, però me ne andai ad Ansedonia al mare, dove ho una casuccia a riprendermi. Quando una sera, suona il telefono, era Enrico Berlinguer che mi dice: "Tu sei il nuovo sindaco di Roma." Io naturalmente dissi che lui era matto, che cercasse un altro. Lui mi spiegò che, essendo io professore d'università, essendo non militante del Partito Comunista, ero l'unico nome sul quale i Democristiani capeggiati da Andreotti accettavano di astenersi invece di votare contro. E allora mi ha detto Enrico, al quale io ho sempre voluto molto bene: "Ci fai perdere la vittoria se rifiuti." So che io ho detto: "No, non lo faccio, o se posso farò perdere la vittoria alla sinistra. Accetto, finché vivo." Lo feci per tre anni. Poi ebbi un altro--col quale il cardiologo Masini, il primo cardiologo romano, mi disse: "Se Lei seguita a fare il sindaco di Roma, non Le dò tre mesi di vita."
PASSERINI
Lo credo.
ARGAN
Perché era una cosa. Però l'ho fatto e adesso, guardando indietro quella esperienza, devo dire che non la considero un'esperienza negativa, per vari motivi. Il primo è che essendomi molto occupato di urbanistica, ho visto che la città reale, era qualcosa di completamente diverso da quello che noi considerevamo la città normale, la città regolare, con problemi di una difficoltà spaventosa, anzi di una impossibilità di soluzione per cui io non ne faccio nemmeno una colpa ai democristiani che sono adesso al potere, perché sono problemi irrisolvibili. L'altro motivo è che riuscii a ottenere la seconda università di Roma, che il Ministero della Pubblica Istruzione non voleva concedere. La ottenni, devo dire, perché era giusto. Ebbi l'aiuto di [Giovanni] Spadolini, che allora era presidente della Commissione Congiunta per l'Università Camera Senato. Sono contento perché si è potuta fare una politica culturale che non era esattamente quella che io avrei voluto, ma che era comunque una politica culturale intelligente come quella di Nicolini, che io appoggiai con tutte le mie forze. E infine per l'esperienza che ebbi del rapporto con il Vaticano, e precisamente con Paolo VI. Perché, quando noi abbiamo preso il Comune, la difficoltà di rapporto con i Democristiani poteva avere consequenze gravissime, fino al ritiro del personale che lavorava nei giardini d'infanzia, negli ospizi, negli ospedali, che era tutta gente che era stata messa in quei posti dai Democristiani. Allora decisi di saltare il fosso e prendere un rapporto con Paolo VI. Lo feci, fu estremamente cortese, cordiale. Ebbi quattro colloqui privati, di un'ora ciascuno, tête-à-tête con lui, e devo dire che quel tipo di spiritualità, certo molto diverso, molto lontano da ogni mia forma di pensiero, mi ha fatto una notevole impressione: era una grande personalità.
PASSERINI
Ah, sì?
ARGAN
Il fatto di aver avvicinato questo mondo della chiesa non ha avuto nessun--nessun effetto. E arrivato alla mia età, spero di morire come sono vissuto, senza alcun rapporto con la chiesa.
PASSERINI
Cioè da laico?
ARGAN
Sì, completamente da laico. Però completamente da laico, devo dire che la dimensione umana molto tormentata, di quell'uomo--Lei pensi che una volta mi ha detto, proprio perché lui metteva il discorso su un piano di comunicazione fuori di ogni cerimonialità, ci siamo trovati daccordo su un punto, io gli ho detto, cosa che non è molto protocollare da dire a un Papa: "È certo Santità, anch'io che non sono credente--" E poi mi sono immediatamente accorto della gaffe, e sono rimasto così. "Quanta umiltà, Professore, e noi che crediamo di aver trovato Dio!" "A tout seigneur tout honneur."
PASSERINI
Quindi questo fu un dialogo arricchente per Lei, fu un'esperienza importante questa?
ARGAN
Non quella in particolare. Fu un'esperienza importante, fu l'esperienza di avvicinarmi a un'istituzione che io in certo modo-- Fu importante, come sarebbe stato importante per me incontrare [Martin] Heidegger, anche se non ho nessun rapporto di pensiero con la sua filosofia. Però volevo dirLe che dopo aver fatto il sindaco di Roma per tre anni, avere sperimentato da vicino la collaborazione con persone che già stimavo come Enrico Berlinguer, per il quale ho concepito un affetto profondo in questi tre anni, avendo fatto esperienza della profonda onestà dei miei collaboratori, della loro lealtà. Signora: io ero l'ultimo venuto. Non ero nemmeno iscritto al loro Partito. Mi dica se in qualsiasi altro partito italiano al secondo giorno non mi avrebbero dato lo sgambetto e fatto cadere. Ho avuto da loro una collaborazione spesso anche competente, ma anche quando non lo era, leale, onesta, limpida, tanto che io uscendo dalla carica di sindaco, sono entrato nel Partito Comunista, sono rimasto nel Partito Comunista e mi auguro di poterci restare fino alla fine della mia vita. Perché se il Partito Comunista dovesse fare delle alleanze, che in questo momento io ritengo assolutamente indesiderabili, non mi sentirei di collaborare. Per il momento, il PDS [Partito Democratico della Sinistra] è un Partito assolutamente democratico, tanto che ha voluto farmi Ministro-ombra per quanto io sia uno dei quattro di questo pseudo-governo che è all'opposizione. Io sono sempre stato e rimango vicino ad [Pietro] Ingrao, a Tortorella, a Chiarante. Però sentii proprio il dovere di legarmi a questo Partito di cui avevo verificato la grande buona fede, la grande onestà. Lei vorrà sapere qualcosa del mio sviluppo come pensiero di studioso.
PASSERINI
Quindi torniamo indietro.
ARGAN
Torniamo indietro. Dunque, dal crocismo iniziale, sia pure con la deviazione in senso di pura visibilità che ci aveva dato Venturi, con la Resistenza naturalmente ho fatto delle esperienze di tipo marxista: Gramsci, innanzi tutto, ma anche una lettura più approfondita degli scritti di Marx. E nello stesso tempo mi sono avvicinato, necessariamente da un lato al pensiero Freudiano, dal quale il pensiero di Croce ci aveva tenuti lontani come se fosse lebbra, dicendo che era una cosa che risolutamente non è da riguardare. Tutte le volte che gliel'abbiamo chiesto ci ha detto che assolutamente non ci mettessimo il naso, che non era affare nostro, se ne occupassero i medici. Quella fu un'esperienza importante, tanto più che non potei non dialettizzarla con il marxismo. E ancora oggi penso che se si trovasse una dialettica concreta di marxismo e freudismo, ci sarebbero per il mondo più possibilità di salvezza di quante oggi non ce ne siano.
PASSERINI
L'idea di Francoforte.
ARGAN
Come?
PASSERINI
L'idea dei Francofortesi.
ARGAN
Sì, poi appunto, siamo stati portati a--abbiamo letto naturalmente anche noi, comme tutti: [Theodor] Adorno, [Herbert] Marcuse, [Jean-Paul] Sartre, [Maurice] Merleau-Ponty e questo ci ha aperto a una esperienza dell'arte cosiddetta informale. Però io fin da principio, sentii e dissi che era veramente l'arte della crisi, così come la filosofia di Sartre era la filosofia della crisi. Perché, poiché mi ero [sic] sempre rimasto addosso quel famoso camice bianco di cui Le ho parlato, ho sentito il bisogno di una reazione in senso razionalistico. Per cui mi sono--ho approfondito lo studio in fatto di arte moderna, del razionalismo architettonico. E siccome-- Io ho sempre voluto camminare simultaneamente sul binario dell'antico e del moderno, perché l'arte antica non mi interessa se non in quanto è un problema moderno, è un problema nostro. Quale fosse il problema di Masaccio io non lo so, so che problema è Masaccio per me, uomo di quest'epoca. E quindi dall'altro canto studiai Brunelleschi, Gropius da un lato, Brunelleschi dall'altro. Scrissi il libro che ha pubblicato Einaudi su Walter Gropius e la Bauhaus , che fosse--considerare, forse il libro che mi è più caro fra tanti, per delle ragioni anche sentimentali che non nascondo. A spingermi a quell'esperienza fu mia moglie [Anna Maria Mazzucchelli] che si era occupata molto di architettura moderna con [Edoardo] Persico e [Giuseppe] Pagano a Milano. Ora purtroppo è morta da molti--parecchi anni.
PASSERINI
Lei si era sposato nel frattempo?
ARGAN
Mi sono sposato, no, nel dicembre '39, prima che scoppiasse la guerra nostra. Era scoppiata già la guerra tra-- Quel libro su Gropius è il libro che io scrissi come critica di tutto il passato e prospettiva per un futuro probabile, che tuttavia io vedevo più realizzabile attraverso una critica acerbamente negativa come quella di Gropius, uomo della sconfitta, che non nell'ottimismo di un Le Corbusier, uomo della vittoria, della Francia vittoriosa. Però, nello stesso tempo in cui sentivo il bisogno di questa esperienza razionale che mi portò a scrivere quasi simultaneamente su Gropius e su Brunelleschi, il libro su Brunelleschi che pubblicò Mondadori, sentivo il bisogno di una reazione, di cercare altre--perché sentivo il limite di quel razionalismo. Ecco perché scrissi un libro sull'Angelico, che è il risultato della mia esperienza pura visibilità e Marxismo. Perché è un libro che, non so se Lei sa, che ho avuto una strana avventura.
PASSERINI
No, non so.
ARGAN
Uscì nel '55 che era l'anno centenario della morte dell'Angelico. Eugenio Battisti, che era un mio caro amico, lo recensì nel Mondo di Pannunzio, con un grande articolo di tutta una pagina intitolato "L'Angelico senza aureola." Un monsignore del Vaticano preparò un articolo per l'Osservatore Romano che era intitolato--lo seppi per vie indiscrete: "Scherza coi fanti [e lascia stare i Santi]." Senonché, dovendo Pio XII fare un discorso all'inaugurazione della mostra dell'Angelico ed essendo--io non l'ho amato certamente--come tutti questi uomini di chiesa sono culturalmente informati, si fece portare tutti i libri sull'Angelico, s'informò, lesse anche il mio, e capì che quell'interpretazione dell'Angelico come politico, come persona che faceva una politica religiosa, serviva al suo gioco molto più che non l'Angelico estatico che guardava gli angeli volare in cielo. Allora cominciò il suo discorso: "Le più recenti ricerche, che onorano le ha compiute." L'articolo del monsignore non uscì più, e il libro ebbe--mi ha detto Skira--un grande successo. E scrissi quello perché mi interessava vedere come finiva la tradizione della Scolastica, la tradizione tomistica nella Firenze del '400. E poi scrissi un libro su Botticelli, perché mi interessava vedere lo sviluppo di un pensiero neoplatonico. E quello che poi mi ha portato a scrivere su Michelangelo.
PASSERINI
Quindi è proprio una storia, una bibliografia intellettuale dialettica?
ARGAN
Sì, mentre per l'arte mi portai prima-- Io in quanto all'arte moderna ho pensato che non è compito del critico incoraggiare questa o quella corrente. È giusto che gli artisti si preoccupino di conservare l'arte. Io sono un critico, cerco di conservare la critica a un mondo che fa tutto il possibile per perderla. E quindi io mi sono sempre posto il problema di che cosa significhi--un giorno Gropius mi disse--Gropius era un uomo di una grande civiltà umanamente molto ricco e molto profondo, e mi disse: "Io Le sono molto grato di quello che Lei ha scritto su di me. Ma non tutte quelle cose che Lei ha detto che io ho pensato le ho pensate." E io gli ho detto: "Gropius, non me ne importa proprio nulla, a me importa che Lei abbia fatte pensare a me."
PASSERINI
Quindi l'atteggiamento era quello non di interpretare, ma di selezionare.
ARGAN
Non di interpretare ma di enucleare dall'opera d'arte una cultura che si è strutturata, che si è elaborata, che si è sviluppata, attraverso la figurazione, attraverso dei fatti visivi, invece che attraverso dei fatti verbali. E che conserva in questo una maggiore specificità disciplinare e quindi anche una maggiore attualità. In quanto, in tutta la sua storia, la parola è un espressione comune per tutte le discipline, mentre la storia dell'arte si presenta come prima disciplina che non si serve della parola, che ha un altro modo di comunicazione. Pragmatico, ma un altro modo di comunicazione. Io ho sempre pensato cioè, che il mio compito era quello di cercare di dare una giustificazione storico-critica, cioè problematica, di quello che accadeva sotto gli occhi miei, nell'arte contemporanea.
PASSERINI
Quindi la connessione con altre discipline come la filosofia e la psicanalisi era a questo scopo?
ARGAN
A questo scopo, a questo scopo. Naturalmente la mia preferenza, sempre per quel famoso camice, era--e questa è la critica che adesso mi faccio.
PASSERINI
Cioè?
ARGAN
Di avere non negato, ma sottovalutato l'importanza enorme dei fenomeni artistici collegati appunto con la psicanalisi. Sì ho sempre riconosciuto l'importanza di un [Marcel] Duchamp, di un Max Ernst, non di un [Salvador] Dalí che ho sempre odiato con tutte le mie forze. Però io ero dall'altra parte, anche per i miei interessi politici che non sono mai venuti meno, e che non potevano venir meno. Perché vede, anche questo Le spiega anche la mia posizione politica attuale. Quando mi chiedono perché io, storico dell'arte, sono Comunista, io rispondo: "Sono diventato comunista perché sono uno storico dell'arte perché ritengo che l'opera d'arte, le opere d'arte, la cultura, debba essere assolutamente di disponibilità di tutti, alla portata di tutti." Il solo partito che mi dà la speranza di leggi che difendano l'interesse pubblico del bene culturale in rapporto all'interesse privato dei suoi possessori è il Partito Comunista. Il solo partito che non l'ha fatto come io avrei voluto, ma che comunque mi dà la speranza di farlo prima o poi, di fare delle leggi urbanistiche che considerino i suoli urbani come suoli di pubblica utilità invece che come oggetti di profitto speculativo, è vero? E per questo io sono diventato Comunista: perché è la linea politica che mi dà maggiore fiducia--dà maggiore fiducia alla mia disciplina.
PASSERINI
Leggendo le cose che Lei ha detto nel corso degli anni, per Lei è molto importante il rapporto col pubblico, cioè la sfera pubblica che torna come interesse collettivo, e non invece appropriata di interessi?
ARGAN
Questo è stato sempre per me fondamentale. Anche perché naturalmente mi ponevo il problema di una cultura che coinvolge l'intero pubblico, come una cultura dei mass-media, della comunicazione di massa. È inutile non porselo questo problema, o di far finta che non ci fosse. Ma Signora: noi tutti, alle otto e un quarto di sera noi vediamo la stessa cosa, abbiamo più o meno la stessa reazione emotiva, milioni di persone. Ma Lei capisce che questo è il fascismo, senza gagliardetti, stivali, bandiere, fanfare, ma può portare al fascismo. Per questo io sento il dovere di fare professione politica, perché ho cercato di fare e voglio fare tutto quello che posso fare per impedire che il collettivismo della--della società dei consumi, della società dell'informatica, eccetera, sia egemonia capitalistica invece che società senza classi.
PASSERINI
Certo, perché poi in Italia si accompagna alla lottizzazione dei privati--
ARGAN
Si accompagna alla lottizzazione dei privati, e si accompagna purtroppo alla corruzione dei partiti.
PASSERINI
E lo so, lo so. Posso fare una domanda anche sul futuro? L'Europa è per Lei una speranza, o Lei pensa che l'Italia--
ARGAN
No Signora, l'Europa per me è una memoria. È stata per noi--per chi come me è cresciuto in epoca fascista, cioè in un'epoca in cui lo Stato rifiutava alla nazione il diritto di essere una nazione europea, il titolo di essere una nazione europea. Quindi io sono cresciuto avendo una ideologia d'Europa, che era poi molto vicino alla mia ideologia razionalista. So quali sono i limiti di questi razionalismi, anch'io ho letto [Gianni] Vattimo e gli altri, lo so perfettamente. Però vede, in una prefazione a una raccolta di saggi che è stata fatta recentemente, io ho scritto che, io ormai sono razionalista come quei vecchi gentiluomini che si battono per l'onore della regina anche se sanno che è andata a letto col cocchiere!
PASSERINI
Ho capito. Quindi un po' disillusa questa-- No, vedendo lo stato dell'Italia, che per molti versi è disastroso, facendo il paragone anche con altri paesi, resta questa idea che attraverso l'inserimento nell'Europa qualche cosa--
ARGAN
No, questo io proprio non lo spero, e il fatto del crollo dei paesi dell'Europa orientale lo dimostra. Era comprensibile che prima o poi si dovessero liberare da quella oppressione sovietica odiosa, che io ho sempre detestato e biasimato, perchè invece di comportarsi da nazione amica e fraterna verso questi paesi, li hanno derubati, esauriti. Però quei partiti--cessando di essere--quei paesi, cessando di essere soggetti all'Unione Sovietica non sono diventati dei paesi comunisti democratici, ma si avviano a diventare dei paesi fascisti.
PASSERINI
Questo è il Suo timore. Quindi prospettive non belle per il futuro.
ARGAN
Non belle. Questa è la ragione per cui io, dell'arte contemporanea, di quello che fanno questi giovani, non scrivo. Non scrivo proprio per elezione. Perché, perché devo comunicare a loro la mia sfiducia? Io in fondo vivo questa sfiducia, e la vivo così, con il piccolo compiacimento egoistico di quello che sa che tanto è una faccenda di mesi e poi è finita. Non ho nessuna premura per carità, però insomma, a ottantadue anni non è che rimane molto da campare. E quindi ci vuole poco a non trovare reazioni ad un pessimismo per il futuro. Mi sembrerebbe disonesto. Ecco, penso forse ancora a Croce che ci diceva, sì di essere antifascisti, ma ci dissuadeva da posizioni di lotta politica esplicite.
PASSERINI
Lei ha introdotto parlando di se stesso il tema della fine della vita, e anche nella Sua filosofia, e nella Sua critica d'arte, Lei ha parlato della morte come un orizzonte molto presente.
ARGAN
Sì Signora. Intanto perché a parlare della morte dell'arte non sono stato certamente il primo. Il primo a parlarne è stato Giorgio Guglielmo Federico Hegel, il quale ha per primo avvertito un'incompatibilità dell'arte con una società borghese, di produzione industriale. Ed era comprensibile che lo capisse. Non lo vedeva pessimisticamente, lo vedeva come passaggio dell'arte alla filosofia. Poi però tutte le profezie che ci sono state nel secolo scorso sul progressismo borghese, sono finite tutte, perché ci sono stati anche nella storia del pensiero borghese dei tentativi di uno sviluppo progressivo--io ho voluto molto bene nella mia vita ad Adriano Olivetti--però sono state sconfitte, sono state sconfitte come è stato sconfitto l'idealismo di Croce. Signora, noi intelletuali di questo secolo dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che siamo dei vinti.
PASSERINI
E vedere fino in fondo che cosa significa questa sconfitta.
ARGAN
E vedere fino in fondo che cosa significa questa sconfitta.
PASSERINI
Questo va insieme a una grande lucidità. Cioè Lei continua a essere fedele all'idea di una critica che vada fino in fondo.
ARGAN
Sì, perché per me la critica è la legge della cultura laica, cioè è l'antidogmatismo a priori-- Oh sì, io come ho detto, ho fatto la carriera delle soprintendenze fino al '53, quando ho fatto il concorso universitario, vinsi la cattedra di Palermo e insegnai a Palermo per cinque anni. Fu un'esperienza molto bella perché Palermo era una città allora molto più ingenua che non Roma, quindi gli studenti erano affezionati. Molti, quando io poi fui chiamato a Roma, mi hanno seguito, sono venuti a Roma e sono ancora qui impiegati a destra e a sinistra. Poi nel '59 Lionello Venturi volle che io succedessi sulla sua cattedra a Roma. Questo avvenne mi ricordo il 12 luglio del '59, e ricordo che nel pomeriggio io ricevetti telefonate di rallegramenti da tutto il mondo, sa perché? Perché Venturi, appena avvenuta la mia chiamata è andato a casa ha telefonato in America, in Svezia, in Olanda, dappertutto, dicendo che io ero il suo successore. Quindi poi ho insegnato a Roma dal '59 fino al '70. Qui io poi feci chiamare accanto a me Cesare Brandi, che era stato fino quel momento direttore dell'Istituto Centrale del Restauro del quale Le parlerò brevemente, perché l'Istituto Centrale del Restauro l'ho fondato io nel 1928--'38.
PASSERINI
'Trentotto.
ARGAN
Nel '38. C'era un congresso di funzionari tecnici delle Sopraintendenze, io preparai, come cosa puramente accademica, il progetto di un Istituto Centrale del Restauro, per il trasporto del restauro dal piano empirico artigianale al piano scientifico. Bottai ascoltò questa relazione e disse: "Appena ho finito, questo va fatto immediatamente." E fu fatto. Quando fu fatto mi offrirono la direzione. Io avevo interessi di ordine più acuto, interprete e lettore del testo che ci fosse allora, per cui feci il nome di Brandi, fu chiamato Brandi, che ha dato a quell'Istituto un periodo di prestigio, quasi di gloria, che poi naturalmente--e stupidamente--questi ministeri hanno distrutto.
PASSERINI
Buttato via.
ARGAN
Buttato via, perché purtroppo il Ministero per i Beni Culturali--questa direzione, è sempre andata peggiorando. Ma pensi che io ho collaborato avendo come direttore generale Ranuccio Bianchi Bandinelli!
PASSERINI
C'è stato un declino.
ARGAN
Un declino dappertutto. Pensi all'Università di Palermo-- Declino di tutto. Lei pensi che quando io lasciai Palermo per Roma-- Nel frattempo Brandi aveva fatto il concorso, ero io in commissione, e naturalmente ebbe la cattedra gloriosamente, feci andare a Palermo Brandi a prendere il posto mio. Poi dopo qualche anno, appena potei, feci chiamare Brandi a Roma, e quando Brandi venne a Roma, feci chiamare a Palermo Calvesi. Dopo di che, adesso non lo so nemmeno come si chiami, mi pare che si chiami Bellafiore, che nessuno sa chi sia. Perché l'università italiana-- Lei sa, Signora, in Italia, quando si vuole fare una cosa brutta si trova un nome latino, è vero? E allora si varano con questa cosa delle cose ignobili, come la Menenio Agrippa e altre infamie romane del genere. L'università italiana è distrutta da due criteri latini: l'Ope Legis e l'Ius Loci.
PASSERINI
È vero. No, l'università italiana è veramente distrutta.
ARGAN
Hanno riempito l'università italiana di somari e di imbecili con il criterio dell'Ius Loci e Ope Legis. Ma naturalmente questo è il criterio del clientelismo, perché vede, a fare l'uomo politico, il sindaco soprattutto, mi sono accorto che il clientelismo rende enormemente.

1.3. CASSETTA NUMERO: II, LATO UNO
12 AGOSTO, 1991

PASSERINI
Questi torinesi che Lei ha citato parlando di [Leone] Ginzburg, [Cesare] Pavese. In particolare Lei si era soffermato su [Enzo] Monferini. Rispetto all'oggi, che caratteristiche aveva questo gruppo? Che cosa significava essere antifascista per questo gruppo?
ARGAN
Sì dunque, Le spiego subito. Il leader politico di questo nostro piccolo gruppo era Leone Ginzburg, che era interamente orientato verso Giustizia e Libertà, cioè insomma il Partito d'Azione. E questa era la nostra linea, perché in realtà noi eravamo completamente all'oscuro dei problemi del mondo del lavoro, dei problemi del mondo operaio. Nessuno naturalmente nella scuola ci aveva detto nulla. Libri a proposito nelle librerie e nelle biblioteche non si trovavano, perché tutto quello che aveva anche soltanto un vago colore socialista o di sinistra era tolto dalle biblioteche, era introvabile anche nelle biblioteche. Io ho letto Gramsci dopo la Liberazione, prima era impossibile raggiungere le sue opere. Ma da questo contatto col mondo operaio ci tenevano lontani anche i nostri maestri, le nostre guide, gli uomini come [Lionello] Venturi, come Benedetto Croce. Come, per citarne altri nell'ambito dell'Università di Torino di quegli anni, uomini pure di altissima coscienza, come [Erminio] Juvalta, uomini come [Augusto] Rostagni, come Ferdinando Neri, i quali tendevano, per non so un atteggiamento in fondo paternalistico che tendevano a sottrarre noi, loro allievi, da quella che era una lotta politica che avrebbe compromesso evidentemente i nostri--i nostri studi. Io ho riparlato della cosa con Venturi e con lo stesso Croce, dopo la guerra, e in un certo senso, soprattutto Venturi, ha perfettamente riconosciuto. Quello che mi disse Venturi un giorno: "Io non potevo sapere." Me lo disse anche prima, non all'imperfetto ma al presente. "Non potevo sapere se tu avevi delle attitudini per fare il politico. Sapevo che avevi attitudine per fare lo storico dell'arte." E io questo avevo il dovere di incoraggiare. In loro c'era il pensiero di conservare vivi dei valori che non si perdessero, che rimanessero per dopo. Questo è stato soprattutto l'atteggiamento di grande generosità di Lionello Venturi che, dopo aver lasciato l'università per non prestare giuramento al fascismo, dopo essere vissuto in esilio, prima in Francia e poi negli Stati Uniti, immediatamente dopo la guerra, rinunciando anche ad una carriera che si era ormai formato negli Stati Uniti, tornò a Roma e si impegnò soprattutto a ricollegare noi del mondo critico e gli artisti al mondo europeo, a ritrovare, a trovare quel senso di rapporto internazionale europeo da cui il Fascismo ci aveva esclusi. Questo è sempre stato l'impegno di questi uomini, che io ricordo con grande gratitudine, anche se certo non contribuirono alla mia formazione politica, ma ricordo con grande gratitudine. Penso appunto a Venturi, che ha dedicato tutto il suo tempo dopo il ritorno dall'America, ad una azione politica per rimettere l'Italia--riadeguare l'Italia ad un mondo europeo. Ci fu anche-- Lei potrà vedere una documentazione abbastanza precisa in una rivista che si pubblicò per anni allora, che era diretta da Luigi Salvatorelli, in cui io ero incaricato della critica d'arte, che si chiamava La Nuova Europa . A introdurmi in questa rivista è stato soprattutto Lionello Venturi.
PASSERINI
Bene, benissimo. Quindi, se posso riassumere, non si trattava tanto di un'azione militante antifascista, quanto di una serie di discussioni tematiche.
ARGAN
No, no da parte mia no. Ma da parte di nessuno in un primo momento ci fu una militanza antifascista, da nessuno di quel gruppo, di quello specifico gruppo. E questo anche perché, proprio per quel rapporto che avevamo con i nostri maggiori, la nostra avversione al fascismo è andata crescendo. Prima è nata come disprezzo per la volgarità culturale del Fascismo, e in questo fummo incoraggiati da Croce, da Venturi, da tutti. Successivamente divenne avversione con la guerra etiopica di cui tutti vedemmo l'ingiustizia e la fondamentale stupidità politica. È diventata l'avversione, è diventato ribrezzo e rigetto con la guerra di Spagna. Perché noi vedevamo un paese che era in piena ascesa, che si era venuto situando tra i paesi, non dico di avanguardia culturale, ma molto avanzati, che era la prima Spagna repubblicana, e questa cosa ci indignò. Naturalmente quando poi venne il legame infame con la Germania nazista e la soggezione ai suoi ordini di persecuzione contro gli Ebrei, di persecuzione contro l'arte moderna, allora effettivamente la nostra avversione è diventata anche opposizione reale e ciascuno di noi ha preso le posizioni politiche che ha ritenuto più opportune. Parecchi sono rimasti legati a Giustizia e Libertà e poi al Partito d'Azione, io invece, per il fatto che occupandomi molto di architettura moderna, avevo inevitabilmente affrontato delle problematiche di ordine sociale, proprio con [Walter] Gropius, con il movimento del Bauhaus, fui invece orientato verso posizioni più socialiste. Infatti io entrai nel '40 nel si chiamava allora PSUP, Partito Socialista di Unità Proletaria, da quello passai al Partito Socialista di [Pietro] Nenni. Dopo la guerra, fui anche a un College inglese a Villars, passai al Partito Socialista. Dal Partito Socialista, avendo avuto un dissenso quando il Partito--fui anche candidato alle elezioni nel '61, nel '62, ora non ricordo--il Partito a un certo momento si dichiarò favorevole al finanziamento pubblico della scuola privata, io allora lasciai il Partito. Passai alla Sinistra Indipendente con Ferruccio Parri, a cui mi legava una devozione e un'amicizia profonda. Poi, proprio perché me lo chiese Parri, essendo allora convalescente di un infarto molto grave, accettai di essere portato--accettai di entrare nelle liste per il Consiglio Comunale, senza minimamente pensare, anzi se avessi pensato non avrei mai accettato, di diventare sindaco di Roma, perché le circostanze hanno portato che solo sul mio nome era possibile un accordo politico. Facendo il sindaco di Roma col Partito Comunista, avendo vicino a me compagni estremamente leali, onesti e impegnati nell'interesse del bene pubblico, che io ho sinceramente ammirato-- Quando ragioni di salute, sopratutto di malattia cardiaca, mi hanno costretto a lasciare il Comune di Roma, sono entrato nel Partito Comunista.
PASSERINI
Benissimo.
ARGAN
Dove rimango ancora nella opposizione con [Pietro] Ingrao
PASSERINI
Questo lo so anche dai giornali. Poi ci sono una serie di domande su [Pietro] Toesca. Può ricordare il tipo di didattica che svolgeva Toesca? Usava seminari o soprattutto lezioni?
ARGAN
Soprattutto lezioni. Faceva tre ore di lezione alla settimana e un'ora, più di un'ora, era un'ora sulla carta, ma in realtà erano sempre due ore o anche più, di seminari, di incontri con gli studenti, per lo più su fotografie di opere.
PASSERINI
Ecco, e rispetto al Suo specifico, alla Sua storia, ebbe un ruolo Toesca nel facilitarLe il posto che Lei ebbe--?
ARGAN
No, non quello, no. Le spiego subito: Toesca mi diede il concorso, vinsi il concorso, me fu molto onesto da parte di Toesca darlo a me, che non conoscevo--che venivo dalla scuola di un collega, dalla scuola di Torino-- E Toesca mi diede la borsa perché giudicò che le mie prove fossero migliori di quelle degli altri, e mi volle poi come suo assistente nell'università. Quando io lasciai, vinsi il concorso per l'amministrazione, fui destinato in un primo momento a Torino, senonché dopo pochi mesi, essendo andato da Torino a trovare Lionello Venturi che era a Parigi, la polizia lo vide, mi sequestrò il passaporto, ho avuto della storie, ma mi hanno trasferito da Torino a Trento. Non andai a Trento perché Toesca, senza dirmi nulla--io tra l'altro ero in servizio militare e non potevo nemmeno venire a Roma a protestare--e Toesca interessò [Giovanni] Gentile, dicendogli che mi mandassero un po' dove volevano, ma in un posto dove potessi studiare, perché ero portato agli studi, mentre--disse Toesca: "A Trento non potrebbe studiare che l'iconografia del San Sebastiano vestito."
PASSERINI
Ho capito. E invece, per quanto riguarda [Roberto] Longhi, si è parlato di divergenze intellettuali tra Lei e Longhi. La domanda è di questo genere: esiste in particolare una specificità italiana per cui queste le divergenze intelletuali erano dovute anche a diverse strategie di potere intellettuale, nell'accademia, o tutto questo non ha--
ARGAN
Dunque no, bisogna distinguere. Nei miei rapporti con Longhi, va distinto con molta chiarezza un primo momento, prima e durante la guerra, e un secondo momento dopo il ritorno di Lionello Venturi. Esisteva tra Lionello Venturi e Longhi un dissenso profondo, che aveva delle ragioni critiche molto precise, che risalivano al gusto dei Primitivi di Lionello Venturi, quindi al '26, ma che avevano forse un altro complesso affettivo, perché il Longhi era molto allievo--stato allievo prediletto e molto aiutato, di Adolfo Venturi, e Longhi aveva nei confronti di Lionello figlio, un certo astio--Longhi era un uomo estremamente sensibile a questi umori. Io ho avuto un periodo di reale amicizia con Longhi e devo dire che ho imparato molto da lui, più anziano; posso--benché non lo sia mai stato in titolo--considerarlo uno dei miei maestri. Dopo il ritorno di Lionello Venturi, essendomi io legato molto strettamente e Lionello Venturi, questo irritò fortemente Longhi che mi attaccò anche in un modo abbastanza curioso, ridicolo, perché mi accusò di aver attribuito a Caravaggio un quadro che non era suo, che poi lui attribuì a Caravaggio. Io non attribuii, mi limitai a indicare che nelle antiche guide di Genova era dato come Caravaggio un quadro che rappresentava la caduta di San Paolo, e che ne avevo cercato--era impossibile averne la riproduzione perché era nella collezione della principessa Balbi, che non permetteva, non dava fotografie, non si doveva vedere nulla di quello che aveva, adesso è Balbi Odescalchi, a Roma, questo--però io ne trovai una riproduzione al tratto, me la indicò Toesca per la verità, me la procurai io, lui ne aveva la notizia--in un volume raro che si trovava a Genova, che Mario Labò mi procurò, e in questa riproduzione poi pensai che l'invenzione di questo quadro non poteva essere che di Caravaggio, per il fatto che la figura del Cristo che piombava dal cielo per parlare con il San Paolo, reali--illustrando così alla lettera l'Actus Apostolorum: "Et vidim faciam suam dicentem," e quindi posizione borromea, che poteva essere facilmente spiegabile con Caravaggio. Ma soprattutto c'era questo Cristo che piombava, rompendo addirittura i rami degli alberi, dell'albero, e lasciandoselo dietro spezzato-- E questo, si figuri, poteva avere questa idea straordinaria se non Caravaggio nell'ultimo decennio del '500. E io indicai che c'era questo libro e Longhi scrisse che io avevo preso per Caravaggio un mediocre quadro fiammingo del 1630. Poi pochi mesi dopo, essendo il quadro uscito dall'oscurità, e avendolo visto tutti, si prese lui il merito di averlo scoperto. Ma Longhi era un uomo così fatto. Comunque la divergenza di fondo, ecco, Le posso dire questo, una divergenza di fondo e anche di metodo, che si è prolungata e in un certo senso si prolunga ancora tra la posizione mia e quella degli immediati discepoli di Longhi, è che in loro c'è una tendenza a seguitare la tradizione ottocentesca del conoscitore, che indubbiamente implica sottigliezza, finezza di giudizio, ma porta all'individuazione del valore nella singola opera d'arte invece che nel contesto culturale. Mentre la mia posizione è soprattutto rivolta a individuare quella specifica cultura che se si esprime visivamente nell'opera d'arte non ha l'equivalente verbale, anche se questo equivalente è in un certo senso presupposto, perché proprio quello che io vorrei, non ho certamente più il tempo davanti a me per poterlo fare-- Mi piacerebbe studiare, è il valore della presunta presenza, e quindi dell'assenza della parola rispetto all'immagine.
PASSERINI
Bello, bel tema.
ARGAN
Un po' l'ho studiato parlando di Michelangelo Architetto.
PASSERINI
Nell'ultimo Suo lavoro?
ARGAN
Sì.
PASSERINI
Dunque adesso ho una domanda piuttosto lunga perché si parte dalle posizioni espresse da Manfredo Tafuri in Teorie e storie dell'Architettura , un libro pubblicato nel '68 da Laterza, dove Tafuri dice tra le altre cose che il Suo metodo implica un rapporto così profondamente soggettivo con l'opera, che ha un legame più stretto, disciplinarmente, con la filosofia che con la storia, e attribuisce questo e un antistoricismo, cioè ne fa insieme causa e effetto, vede un legame, con l'antistoricismo della storia dell'arte in Italia. Questo si potrebbe--ha portato, da un lato a un' interpretazione, se si prende per buona questa tesi, che ciò sarebbe accaduto, come lo stesso Tafuri dice, sotto la pressione del Fascismo, cioè come--una fuga dalla realtà storica verso la filosofia, al fine di sfuggire alla pressione del Fascismo. Vorrebbe commentare tutto questo?
ARGAN
Senta, io non do torto a Tafuri. Vedo però, come del resto lui stesso vede, questa sua obiezione in una prospettiva storica. Io non credo che in nessuna disciplina ci siano dei metodi in assoluto perfetti e altri non perfetti. Io stesso riconosco di avere nei miei studi fatto delle scelte, seguito delle linee, che forse allora erano inconsapevolmente, ma più tardi dovetti riconoscere legate ad una volontà di reazione interna al fascismo. E questo, chi è vissuto sotto il Fascismo, l'ha provato e lo sa. Tafuri è più giovane di me, non ha vissuto questo. Vede, qualche volta mi hanno rimproverato--e io stesso ammetto che hanno avuto ragione a farlo--che in fatto di arte moderna io non ho voluto parlare mai del "Novecento," del cosiddetto "Movimento del Novecento," condannandolo in blocco, rifiutandolo anche se poi in realtà all'interno ci sono degli artisti che valgono, e che io sapevo che valevano, se io ne avessi detto bene nel '930, facevo la figura del Fascista.
PASSERINI
Capito, capito.
ARGAN
Mario Sironi, che era fascista dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, me era un uomo onesto e leale, una volta mi disse: "Mi piacerebbe tanto che tu scrivessi qualche cosa sulla pittura che faccio. Capisco che non lo puoi fare perché passeresti per Fascista." Bisogna aver provato cos'era vivere al tempo del Fascismo, e soprattutto chi come me non ha fatto nulla di eroico contro il Fascismo, non ha fatto una militanza. Sì, ho fatto poi qualcosa durante la Resistenza come han fatto tutti, ma allora non ho mai fatto un'azione, come non l'ha fatta [Norberto] Bobbio, come non l'ha fatta [Massimo] Mila, come non l'ha fatta nessuno di noi. Ebbene, io riconosco che questo mi--mi portò dei punti di vista unilaterali. E in un certo senso sentivamo maggiormente, proprio noi che non facevamo dell'antifascismo reale, perché anche se facevamo un po' di antifascismo così, legato al Partito d'Azione, d'intesa con Carlo Levi, Giacomo Debenedetti, Franco Antonicelli che erano i nostri maggiori, i nostri modelli, e tutto proprio perché non facevamo quella lotta, sentivamo il bisogno di essere più intransigenti negli altri punti.
PASSERINI
Però se mi consente, a me, come esterna alla storia dell'arte, sembra che il legame particolare che c'è nelle sue opere tra la storia dell'arte e la filosofia, sia una caratteristica molto importante.
ARGAN
Sì, io le ho detto che riconosco legittimo il movente, di Manet sullo schermo, ho deciso che non avrei più toccato nè un pennello nè una matita e mi sarei occupato della pittura altrui invece che della mia. cioè riconosco che questo movente può aver contribuito. Ce n'è stato un altro fattore che può avere contribuito a darmi fin d'allora questa tendenza a posizioni filosofiche di interesse per problemi di estetica generale, ed è il fatto che io da ragazzo avevo cominciato col fare il pittore, volevo a tutti i costi fare il pittore. Ho fatto per conto mio il pittore, ho avuto perfino qualche successo perché, essendo in seconda liceale, mandai un quadro--due quadri alla Promotrice, ne accettarono uno che fu esposto, ma io avevo sedici anni. Quando, frequentando la scuola di Venturi, io mi accorsi perché io volevo fare il pittore, mio padre mi disse: "Senti, per piacere, hai preso la licensa liceale, prenditi una laurea in Legge." Io mi iscrissi a Legge, però andai a sentire le lezioni di Lionello Venturi, quando vidi--guardi, proprio lo posso citare--l'Olympia
PASSERINI
Quindi questa caratteristica della sua opera è stata interpretata in vari modi, per esempio si è parlato--e me lo ricordano qui gli studiosi californiani --di Lei come un Decostruzionista ante Litteram.
ARGAN
Come?
PASSERINI
Un Decostruzionista ante Litteram, così Lei è stato definito anche.
ARGAN
Questa è una definizione che mi fa piacere le spiego perché. Perché è collegata alla lunga riflessione che io ho fatto sul tema hegeliano della morte dell'arte, orientandomi verso una prospettiva che le dirò in due parole, che anche quello è un tema che da un lato mi sarebbe piaciuto svolgere, ma che in un certo senso non ho voluto svolgere. Cioè che l'arte nel suo complesso, nella sua storia, altro non sia che una metafora della morte che dà il senso a tutti gli atti della vita. E che quindi non sia tanto da parlare della morte dell'arte come un decadimento storico. Questo c'è-- Hegel, che è stato il grande teorico della cultura borghese del secolo scorso, ha capito perfettamente che lo sviluppo industriale avrebbe finito per distruggere tutto ciò che storicamente era l'arte. Siccome io non concepisco un concetto, ma solo una realtà storica dell'arte mi esprimo così: io non escludo, anche se debolmente credo, che nella cosiddetta società dei consumi, dell'informazione, possano esserci espressioni di carattere estetico, però escludo che possano essere di carattere artistico, cioè che siano legate a quello che Alain chiamava il "système technique des arts."
PASSERINI
È interessante molto questo discorso, certo. Ma se posso porre ancora un'ultima questione sempre su questo stesso punto, una impostazione di questo genere rende particolarmente imprevedibile la trasmissione della propria scuola a degli allievi, in un certo senso, perché, se non interpreto male, anziché trasmettere un metodo da un punto di vista positivistico e tecnico si trasmette.
ARGAN
Ecco, vede, questo è qualcosa che io imparai da Lionello Venturi e che credo di avere praticato e che credo che sia la ragione per cui molte persone che si sono formate con me hanno poi avuto una loro individualità e una loro assoluta. Tafuri non è stato mio allievo, lui ha fatto architettura, non ha fatto lettere, però Tafuri viene indubbiamente dalla linea di storia dell'architettura che impostai io nel lontano 1930. Però, come Venturi all'inizio di ogni corso ci diceva: "Voi dovete cercare di persuadervi del contrario di quello che io dico." E io questo ho mantenuto anche nei confronti dei miei studenti. A proposito di Tafuri, che conserva un orientamento non solo storicistico, ma anche un po' sociologico, che come tutti coloro che fanno della sociologia, che fanno una sociologia in senso deterministico. Tafuri cerca chi abbia sollecitato l'artista a far quell'opera, gliel'abbia ordinata, abbia influito nella sua formazione, nella linea in cui ancora Carlo Ginzburg-- A proposito di Piero della Francesca, che quando scrisse quel libro io mi ricordo che dissi scherzando a Ginzburg: "Ma insomma, finitela quando parlate di storia dell'arte di cercare l'imbecille che ha creato un genio." Però, siccome esiste negli storici quell'idea di una superiorità della storia, storia rispetto alla storia dell'arte, che sarebbe una storia particolare, e questo cercare un Baccio Valori, che non era un cretino, non era un imbecille. Cercare un Baccio Valori che influisce su Piero della Francesca, lo mandava in visibilio. Io avrei cercato l'influenza di Piero della Francesca su Valori. Quando i miei studenti ebbero, come tutti hanno avuto intorno al '68, la mania della sociologia, e io mi trovavo continuamente di fronte a richieste di tesi di laurea: "I committenti del Botticelli, i committenti di Tiziano." Io un bel giorno persi la pazienza e dissi: "Sentite ragazzi, smettetela di cercare di sapere per chi sono state fatte le opere d'arte. Imparate a cercare contro chi sono state fatte." E allora questo portò su, perché effettivamente in ogni opera d'arte c'è una volontà polemica, in tutte anche nelle più assenti. Vede, io in quello che fu l'oggetto della mia ricerca, proprio per esortazione di Lionello Venturi, col quale dopo il suo ritorno in Italia, ho avuto--dal '45, '44 che era, fino al '61 quando lui è morto--incontri molto frequenti, molto affettuosi, molto molto cari, un bel momento Venturi mi disse--sapendo anche che le mie posizioni di assoluto scetticismo religioso--mi disse: "Tu devi fare una cosa, e te la ordino a nome di Skira, scrivi un libro sull'Angelico." E io scrissi quel libro sull'Angelico in cui ho cercato di dimostrare, e credo di esserci riuscito, che l'Angelico non era un mistico né un asceta, ma era un uomo che faceva una politica culturale a nome del Convento di San Marco, che aveva un potere culturale molto forte, soprattutto sotto Cosimo I, Cosimo il Vecchio. E che quindi era in un certo senso il contraltare di Leon Battista Alberti, e cercava di rendere moderne e attuali delle idee che erano le idee tomistiche. Infatti l'Angelico, lo trovai io, Angelico non si era mai chiamato, si chiamava Giovanni da Fiesole. Venne chiamato Angelico, secondo il Vasari, perché aveva le visioni divine, ma non era perché era l'interprete di San Tommaso. Era il "pictor angelicus." Era come il San Tommaso era "il doctor angelicus." Io feci questo libro dimostrando che lui cercava di realizzare l'estetica di San Tommaso. Ebbe una strana storia questa cosa, perché ne uscì una recensione molto bella fatta dal povero Battisti, Eugenio Battisti, su Il Mondo di [Mario] Pannunzio, che era intitolata "L'Angelico senza aureola." Un monsignore vaticano preparò una controrecensione per L'Osservatore Romano --io lo seppi per vie traverse--intitolato: "Scherza coi fanti," puntini. Senonché questa recensione non uscì mai, perché questo mio libro cadde sotto gli occhi di Pio XII il quale avendolo letto, capì che questa tesi dell'Angelico politico culturale gli serviva molto di più che l'Angelico mistico. E facendo il suo intervento culturale all'apertura della mostra dell'Angelico in Vaticano nel '55, cioè nel centenario dell'Angelico, ha fatto una recensione estremamente laudativa, che procurò una vendita. Skira ne era felice.
PASSERINI
Lei ha menzionato il '68, che era una delle domande che io dovevo farLe, perché ha già detto--nel corso del racconto che Lei ha fatto sul rapporto coi suoi studenti e l'impostazione sociologica--ha già detto implicitamente qualcosa sul '68. C'è qualcosa che Lei ritiene di voler aggiungere come valutazione del fenomeno complessivo del '68 anche nella storia dell'arte?
ARGAN
Mah, io l'ho vissuta all'interno dell'università la causa del '68, nei suoi aspetti positivi ed in quelli negativi. Siamo stati in un certo senso noi docenti, perché una riforma dell'università era assolutamente necessaria come sviluppo di una struttura; che era una struttura assolutamente decorosa, al tempo in cui io fui allievo, fui studente all'università, ma era vecchia e poi soprattutto non prevedeva l'afflusso di massa che si è verificato dopo. Però a fare la riforma all'università dovevano essere i professori e gli studenti, le rappresentanze degli studenti, ma doveva nascere nell'università, la riforma, non nel Ministero della Pubblica Istruzione. Cercammo inutilmente, prima del '68 assai di fare una commissione, un comitato per questo. Lei conosce il mondo universitario meno--meglio, come me insomma, molto più giovane il Suo sì. Si facevano questi comitati, ci si trovava in due. Quindi noi abbiamo avuto questo. Io non ebbi nessuno scontro con gli studenti, ho avuto dei rapporti eccellenti, anche con quelli che facevano della contestazione. Non ho mai avuto nessun episodio sgradevole ma--perché si stabilì un rapporto--intanto io, ripetto ad un atteggiamento di rigore disciplinare come quello che era stato preso dal rettore che allora era D'Avac a Roma, io fui dalla parte degli studenti. Ci fu un mio scontro con D'Avac proprio davanti alla porta della facoltà, perché il giorno in cui era stabilito che io dovevo fare esami, c'era l'avviso. Era stabilito dal calendario, io vado, mi vogliono impedire di fare gli esami perché la facoltà era stata occupata nella mattinata. E al che, io dissi a D'Avac: "Mi dispiace, caro Rettore, ma tu hai torto, perché nella facoltà ci sono gli studenti, è logico che gli studenti occupino la facoltà. Se ci fossero i poliziotti, parlerei di invasione, ma finché si parla di occupazione le cose mi vanno bene." Gli esami sono annunciati. Gli studenti lasciano entrare chi vuol andare a fare l'esame, io gli esami li faccio. Costituisco la commissione nel modo assolutamente regolare e gli esami li faccio. Costituii la commissione con Cesare Brandi, che era mio collega--cattedra A e cattredra B--e con Bonicatti, che era allora mio assistente, due ordinari e un assistente quindi eravamo tre, era perfettamente regolare. E lui minacciò di fare annullare gli esami. E io gli ho detto che non avrebbe potuto farli annullare perché gli esami erano perfettamente regolari e infatti non potè farli annullare. Purtroppo, almeno a Roma, il Movimento Studentesco è stato alterato da due componenti che erano ugualmente negative dal mio punto di vista. Una era la componente esplicitamente extraparlamentare: autonomi, eccetera. E l'altra invece, un atteggiamento borghese di quelli che vogliono essere sicuri lasciando l'università di avere il posto. Infatti quando una volta vennero e dissero che volevano fare l'esame politico e che volevano il massimo dei voti e non fare l'esame, io gli dissi: "Non ve lo posso fare, perché ci sono quegli operai--si vedevano dalla finestra--che lavorano in quell'edificio, e stanno costruendo quell'edificio, perché non devo darlo anche a loro il voto? Sono nelle stesse condizioni. È vero? Io mi rifiuto di fare a voi una preferenza perché non c'é nessun motivo." Inoltre gli dissi chiaro quando loro sollevanono la questione politica: "Guardate, io non ho nessuna difficoltà a parlare con voi di politica, però--c'era il Vietnam--in fatto di Vietnam io non ho delle informazioni speciali che vi posso dare. Ne so esattamente quanto voi, quindi possiamo parlarne da buoni amici fuori, quando è finita la lezione. Siccome io sono pagato, e sono pagato da voi, io la mia lezione la faccio. Non volete sentirla, uscite. Vi comportate come uno che vada dal salumaio, chieda del prosciutto, lo paga e poi la lascia sul tavolo e se ne vada." E ho avuto delle strane soddisfazioni in quel caso, perché c'era il più accanito, non contro di me, uno insomma il più--che veniva chiamato il "pifferaio" perché suonava un piffero, il quale quando io mi ammalai di quest'infarto, veniva due o tre volte alla settimana a trovarmi, molto dolcemente, veramente da amico, poi l'ho perduto di vista, ma veniva a trovarmi. Vennero da me i famosi "Uccelli."

1.4. CASSETTA NUMERO: II, LATO DUE
12 AGOSTO, 1991

PASSERINI
Una domanda riguarda il turismo.
ARGAN
La mia bestia nera.
PASSERINI
Ebbe un'influenza, e come si articolò storicamente? Lei ha detto "la mia bestia nera" e quindi già--
ARGAN
Lei ricorda il saggio di Roland Barthes, sul turismo come uno dei miti contemporanei? In questo credo che Roland Barthes avesse perfettamente ragione. Inoltre io imputo al turismo il fatto di impedire, per ragioni di impossibilità di coesistenza nel medesimo spazio, l'impiego culturale, la vita culturale delle città. Firenze, Venezia, sono diventate città impraticabili. Musei che sono diventati impraticabili, come nella maggior parte dei giorni negli Uffizi, e che insomma impediscono di svolgere un'attività scientifica attraverso il museo. Il museo non è né un tempio dell'arte, come una volta si diceva, ma non è nemmeno un deposito soltanto. Sì, io vorrei dei musei-depositi, il mio ideale, il mio sogno--capisco che è impossibile, i musei sono di tutti i cittadini e non soltanto degli studiosi, ma--io li vorrei vedere come le biblioteche, che si va, si chiede un quadro come in biblioteca si chiede un libro, viene tirato fuori da una rastrelliera, lo si studia. È un'utopia, ma questo sarebbe il mio ideale. Però purtroppo non è che questo mio ideale contrasta o è in lotta con un altro, è schiacciato da un'idiota politica del turismo che in Italia si è fatta, per cui il turismo interessa solo i grandi centri e le piccole città vengono completamente abbandonate, trascurate, ignorate. Nessuno va più ad Arezzo, nessuno va più a Parma, nessuno va più a Fidenza, che è una città splendida, nessuno va più a Piacenza che è una città bellissima. Perché, perché la colpa è del Governo, che col suo ministero del Turismo--lasciamo stare a chi viene affidato, è quasi come la storia dei Beni Culturali, che fanno una politica di incremento quantitativo, senza minimamente--trascurando completamente quel turismo di lungo soggiorno che era una caratteristica dell'Italia, e che faceva parte del suo livello culturale. Ma pensi a Shaftesbury che va a vivere a Napoli, a Shelley che va a vivere a Roma, e che hanno contribuito allo sviluppo della nostra cultura, e come! Ora, questo turismo di lungo soggiorno--Goethe che sta due mesi in Italia nell'88, nel '98 e poi ci torna--questo turismo di lungo soggiorno, questo turismo di studio--ma questo è colpa dei nostri governi. Io quando si parlò dell'EXPO a Venezia l'assurda cosa che voleva De Michelis, ho detto: "La cosa da fare a Venezia-- Perchè a Venezia non si fa un centro ultrauniversitario, superuniversitario, un Institut des Hautes Études, un Center for Advanced Study, come Princeton, dove ci fosse raccolta una bibliografia, una biblioteca completa, dove chi va potesse studiare. Oggi, se io voglio studiare arte a Venezia, l'unica biblioteca di storia dell'arte che avevamo è chiusa, inservibile. Palazzo Venezia, abbiamo l'Hertziana, dobbiamo andare all'Hertziana o all'Istituto tedesco di Firenze a studiare l'arte veneta. Che cosa si vorrebbe a fare a Venezia un centro per l'arte veneta di-- Allora avremmo studiosi americani, inglesi, di tutti i paesi del mondo, che passano un'invernata completa a Venezia a studiare: questo dovrebbe essere l'incremento che si deve dare al turismo. Poi facciano anche fino a un certo punto il turismo di massa, ma con un po' di buon senso. Lei veda per esempio che nelle nostre città, che muoiono da eccesso di traffico, in parte questo eccesso di traffico sono questi dannati torpedoni turistici, dove a Roma bloccano le strade per ore. Lei pensi, quando io ero sindaco a Roma, venni avvisato che c'era stato l'attacco terroristico contro la sede della Democrazia Cristiana a via Nicosia. Andai, e c'era un poliziotto morto e uno ferito molto gravemente che poi morì all'ospedale, che però era ancora vivo. Non c'era un altro mezzo, lo caricai sulla mia macchina, e partimmo con i vigili davanti a tutta velocità verso l'ospedale, quello lì al centro, come si chiama? Adesso mi sfugge, insomma, lì, proprio al centro--al San Giacomo, che è a trecento metri. I torpedoni ci impedivano. Io avevo questo ragazzo povero morente sulla macchina e c'erano i torpedoni di turisti che impedivano. Quando io cercai in tutti i modi di fare eliminare questa cosa, mi saltarono addosso dal Vaticano, perché erano tutti pellegrini di questi che arrivano, li mettono nei conventi vuoti, perché hanno questa--dicono la crisi delle vocazioni o cosa sia non lo so, hanno i conventi vuoti, allora li riempiono di questa gente, poi gli danno il canestrino con la roba da mangiare, che poi questi vanno al Gianicolo, mangiano e buttano tutta la porcheria sulle aiuole. Io cercai di-- Uh, mi sono saltati addosso, dicendo che era indegno che un sindaco comunista, dicesse che le città dovevano essere solo per i ricchi e non per i poveri.
PASSERINI
Ma le origini del turismo di massa, almeno come ispirazione, sono negli anni '30, già in Italia, perchè pensando ai treni popolari di Mussolini--anche se poi, in realtà poi--
ARGAN
Sì, ma vede, i treni popolari di Mussolini--povero Mussolini, fu la cosa meno male che inventò--mi ricordo che anche noi si presero. Ma era cosa di un giorno. Si partiva la domenica mattina presto, alle due, tre, quattro del mattino, si tornava a tarda notte. Si stava fuori un giorno.
PASSERINI
Molto più tardi è diventato un flagello.
ARGAN
No, adesso molto. È avvenuto proprio perché si è verificato questo fenomeno della inquietudine, del volere liberarsi da un ambiente alienante, non lo so che cosa sia. Venezia è diventata una città dove è impossibile studiare. Oggi non è possibile studiare l'arte veneta. Non è studiabile matematicamente, oggettivamente. E questo io trovo che è una cattiva politica, tanto più che le aggiungo una cosa: questa concentrazione in due, tre città famose, porta che le minori sono sempre vuote. Insomma, io fui, proprio quando Toesca--le decevo prima--mi fece liberare da Gentile da Trento e mi mandarono a Modena, Direttore della Galleria Estense. Splendida galleria! Splendida galleria, perché è la galleria degli Estensi, che nel 1507 quando cacciarono via gli Estensi da Ferrara venne a Modena. Quindi c'è dentro arte ferrarese una delle più belle gallerie italiane. Non ci va nessuno. La media dei visitatori era di un visitatore al giorno, fino a pochi anni fa. Me lo disse Bonsanti che fu uno dei direttori recenti: una persona al giorno! E lo Stato deve pagare un direttore, deve pagare un economo, deve pagare una dattilografa, deve pagare dei custodi, deve pagare la manutenzione di un locale-- Ma questo, capisco che non possa rendere in soldi, ma visto che non può rendere in soldi, perché non lo facciamo rendere in cultura?
PASSERINI
Vuole ricordare qualche importante progetto realizzato sotto la Sua responsabilità nel campo delle Belle Arti o della Sovraintendenza?
ARGAN
Be', senta, le posso dire quello che ormai ha più di cinquant'anni la fondazione dell'Istituto Centrale del Restauro, che feci io nel 1939, '38-'39. Che fu, devo dire perché è la verità--c'era un convegno dei funzionari delle Sopraintendenze, e io feci in linea puramente teorica--ero giovane, avevo ventinove anni, in linea puramente teorica il progetto di un Istituto Centrale del Restauro, che io desideravo perché portasse il restauro dal livello ancora empirico-artigianale a un livello scientifico. Io lessi questa relazione, e [Giuseppe] Bottai, che era presente: "Questo si fa immediatamente." E me lo ha fatto fare.
PASSERINI
Uomo molto intelligente, Bottai.
ARGAN
Molto intelligente. Senta, io non sono sospetto di simpatie Bottai, io dico sempre, è il miglior ministro dell'Istruzione che io ho conosciuto in sessanta anni e più di frequenza. Il migliore.
PASSERINI
Sì, lo so. Possiamo venire sul piano dei rapporti personali? Lei ha portato, nel campo della storia dell'arte, anche valori non intellettuali, quello della personalità per esempio. Nei rapporti con altri studiosi: Giuliano Briganti, Enrico Castelnuovo, Germano Celant, quali sono state le relazioni personali? Si può parlare di una vera e propria comunità intellettuale?
ARGAN
No, non si può parlare di una comunità intellettuale, anche se i miei rapporti con Giuliano Briganti con Castelnuovo, con lo stesso Celant sono eccellenti come rapporti. Però non c'è nessuna comunità di lavoro, si è molto isolati. L'ultimo team che c'è stato, e che ha credo funzionato anche bene, è stato il team mio con Brandi.
PASSERINI
Quindi sono più delle convergenze a due che una communità, che una collettività.
ARGAN
Sì, ma anche se ne aggiunsero altre perché a noi molto vicino era Cesare Gnudi. E anche qualche altro che adesso non ricordo, la maggior parte sono morti. Ma veda: io posso ricordare il mio rapporto con Cesare Brandi. Lei pensi che in fondo noi eravamo considerati un po' i due cavalli di punta. E abbiamo--entrati con lo stesso concorso--lui aveva tre anni più di me. Quando io fui cacciato via da Torino, potei andare a Modena perché Brandi, che era Ispettore alla Sopraintendenza di Bologna, ma aveva in più la direzione della Galleria di Modena, la lasciò a me perché io potessi venire a Modena. Quando io feci l'Istituto Centrale del Restauro, e Bottai mi fece proporre di prenderne la direzione, fui io a volere Brandi, non per ragioni di amicizia, ma io avevo interessi prevalentemente teorici, Brandi era uno straordinario interprete dei testi, era la persona che ci voleva. E poi i nostri rapporti sono rimasti sempre affettuosissimi. Quando lui era direttore dell'Istituto del Restauro, e aveva avuto dei dissensi con la direzione generale, fui io a persuaderlo a fare il concorso universitario. Ero io in commissione. Gli ho dato io la cattedra. L'ho fatto chiamare alla cattedra di Palermo che io in quell'anno, lasciavo nel '59. Poi, appena possibile, lo feci chiamare all'Università di Roma dove poi abbiamo lavorato vicini, gomito a gomito, finché lui andò in pensione prima di me, perché era più vecchio. E ci fu questo rapporto. Non ci fu mai un urto. E non avevamo idee criticamente molto vicine.
PASSERINI
Un sodalizio intellettuale che era una possibilità di dibattito anche.
ARGAN
Che era una possibilità di dibattito, ma nello stesso tempo anche di difesa dei valori.
PASSERINI
Ancora sul piano dei rapporti personali. Lei ha accennato nella prima intervista a un'influenza anche intellettuale che ebbe Sua moglie [Anna Maria Mazzucchelli] suggerendole un campo di studi.
ARGAN
Sì. No, non fu lei completamente a sugge-- Sì, in un certo senso sì. Le spiego subito. Nel 1930 era l'anniversario, non mi ricordo più adesso che numero di anniversario, della morte di Antonio Sant'Elia, l'architetto futurista. Io avevo, in quell'anno essendo ancora studente all'università, pubblicato il mio saggio sul Palladio, nella rivista di Venturi. Venturi mi disse "Bèh, ti sei occupato di architettuta, fammi un articolo su Sant'Elia." Io feci questo articolo su Sant'Elia, che interessò molta gente, e interessò mia moglie, la quale lavorava con Edoardo Persico alla direzione di Casabella , nello studio di Giuseppe Pagano, di cui io ero anche amico. Io però non la incontrai se non dopo la morte di Persico. I rapporti si sono avvicinati perché lei mi scrisse una lunga lettera per annunciarmi la morte di Persico, raccontandomi di lui, parlandomi di lui. Io poi andai a Milano, e poi siamo diventati marito e moglie. Lei lasciò ogni attività: fu una cosa che a me dispiacque molto, ma lei lasciò ogni attività, poi si orientò verso strane cose, interessi culturali, ma strane, molto lontano dal-- Però fu senza dubbio lei che, partendo da quel mio saggio, che però mi aveva chiesto Venturi, continuò a chiedermi collaborazioni per Casabella , e poi naturalmente, essendoci sposati, si parlava continuamente, si frequentavano architetti. Per cui a occuparsi del Bauhaus fu mia moglie, che capì che io avevo bisogno di occuparmi del Bauhaus e di scrivere del Bauhaus negli ultimi anni del Fascismo, quando io ero orientato verso forme di socialdemocrazia più che di estrema sinistra, e poi capii che questo pensiero di un'arte che ricostruiva una società, entrava in quella problematica ansiosa della ricostruzione che ci prese tutti immediatamente dopo la guerra. E vede, la nostra vicenda intellettuale è stata quella di aver sentito in questo, proprio guidati da uomini come Venturi, la necessità di impegnarsi ad una ricostruzione, a ritrovare dei rapporti con il mondo europeo. Ci siamo impegnati a fondo in questo. Naturalmente una ricostruzione non era possibile, e quando noi abbiamo cercato, abbiamo conosciuto l'Europa che per noi era un'ideologia, ci siamo accorti che l'Europa era un paese pieno di dolore, di strazio, e di contrasti, quando a noi pareva il migliore dei mondi possibili. Ecco perché dal momento della ricostruzione, che noi--questo è un passaggio un po' strano--questo bisogno di ricostruzione ci portò al superamento del crocismo che era uno star fuori da tutto questo. Ci avvicinammo invece al fenomenologismo, soprattutto a [Edmund] Husserl, perché eliminava--libro che ebbe su di me molta forte influenza fu: La crisi delle scienze europee di Husserl--ci orientava verso la fine della concezione fondamentalmente ancora teologica di un sistema culturale unitario con un vertice, eccetera. E ci portò invece a pensare all'autonomia delle discipline, una relazione dialettica delle singole discipline, e quindi ciascuna singolarmente instituzionalizzata. Da questo tentativo di vedere in Husserl, proprio anche perché naturalmente sapevamo tutta la storia di Husserl perseguitato dal Nazismo, le sue opere salvate in estremis da quella monaca che le portò in Belgio, l'università del Belgio--
PASSERINI
Lovanio?
ARGAN
A Lovanio. Le portò a Lovanio. Però questo ci portò poi immediatamente verso la filosofia della crisi, ci portò verso [Jean-Paul] Sartre. Mentre invece la mia reazione è stata sempre molto forte. Ho sempre trovato insopportabile [Martin] Heidegger. Vede, Heidegger proprio è quello che mi ha insegnato una cosa che è stata un po' una delle regole: io ho sempre pensato che ogni politica costruita su una filosofia è pessima. Ogni filosofia costruita su una politica può essere buona. E questa è stata un po' la ragione della mia inclinazione marxista.
PASSERINI
Capisco. Io credo di poterLe fare una domanda ancora.
ARGAN
Mi dica, Signora.
PASSERINI
Lei è uno dei pochissimi che ha studiato sia l'arte antica sia l'arte contemporanea, e per quanto riguarda l'arte contemporanea, si può fare una lunga lista di artisti che sono stati oggetti del suo studio: da [Alberto] Burri, a [Giuseppe] Capogrossi, a [Pietro] Consagra, a [Ignazio] Gardella, a [Mario] Mafai, Martini.
ARGAN
Sì, e poi per stranieri [Henry] Moore, Picasso.
PASSERINI
E Lei ha detto, da qualche parte: "L'ho fatto seguendo le mie preferenze." Ora, riflettendo a posteriori su questo, si può dire che in qualche modo la partecipazione del suo discorso critico è intervenuta nella creazione? O in altri termini, Lei riconosce la funz--la fruizione da parte del critico come momento fondante della creatività nell'arte contemporanea?
ARGAN
Sì. Non solo, ma veda: qui entra un'altra cosa che io avrei voluto fare, cominciai a fare e poi non feci. Io a un certo momento mi ero proposto di scrivere una storia della pittura dell'Illuminismo, e scrissi infatti un lungo saggio su [William] Hogarth, su [Thomas] Gainsborough, scrissi su [Joshua] Reynolds ma cose, articoli, saggi, non--volevo fare un libro sulla pittura dell'Illuminismo inglese. Ora, nella pittura dell'Illuminismo inglese, che è la prima pittura decisamente laica, cioè assolutamente priva di problematiche religiose. Reynolds dice chiaramente che--be', naturalmente, perché con l'Illuminismo la critica diventava l'asse del pensiero, quindi lui dice che il pittore fa della critica. Le scelte che fa un pittore, tutta l'attività di un pittore è la scelta del meglio, quindi procede attraverso delle scelte che sono tutte scelte critiche. Questo l'ha scritto Joshua Reynolds nel 1780-82-83. Ed è tutto il pensiero inglese che è orientato in quel senso. Questa è una cosa che mi rincresce di non avere concluso, una che ho fatto studiare, parecchie cose sono già state pubblicate da miei studenti e studentesse in argomento. Perché la nascita della critica d'arte per conto mio é con Richardson, nel 1718 o '19. Lui scrive che di tutte le attività umane, l'arte è la più redditizia perché col minimo di costo produce il massimo di valore. Un quadro cos'è come valore materiale? Un pezzo di tela, un po' di colore, un telaietto di legno. È invece il quadro. Sennonché la conseguenza è che il valore è il processo dell'opera. È il processo dell'opera. E quindi questo processo, questo fare, come fare intellettuale, diventa fondamentale. E questo fare, nel pensiero di Reynolds, prima con la distinzione di pittoresco e sublime, che è fondamentale, che è una cosa di un interesse estremo, perché questo--in questo momento ho il buco nero, padre e figlio, nati in Russia--
PASSERINI
Nati in Russia?
ARGAN
Che fece la distinzione di pittoresco e sublime, nel 1750. Che fa addirittura delle cose che--dice, scrive questo pazzo, che in questo momento il nome--
PASSERINI
Adesso Le verrà in mente.
ARGAN
Scrive che per fare un paesaggio bisogna fare una macchia sulla carta--[Anthony] Blunt--e poi lavorare su questa macchina, e che allora viene fuori un elemento di natura. Una cosa quasi da psicanalisi. Che poi è quello che ha ripreso Kant nel teorizzare in quella teorizzazione per me deliziosa del pittoresco e del sublime, che lui chiama "bello" e "sublime," del bello e del sublime, che senta, io me lo sono riletto recentemente, mi sono accorto di una cosa, che è un libro filosofico pieno di umorismo, dalla prima parola fino all'ultimo, un umorismo di un livello--Kant non c'è da aggiungere altro--un umorismo che lo porta a dire: "I capelli biondi sono il bello. I capelli bruni sono il sublime."
PASSERINI
Mi piacerebbe, mi ha fatto venir voglia di rileggerlo.
ARGAN
Oh, sì, lo rilegga con questo spirito, Lei si accorgerà che è un libro interamente scritto consapevolmente, volontariamente e filosoficamente ma umoristico, con un humor straordinario.
PASSERINI
Molto bene. Io do un'occhiata rapida qui. Mi sembra di averLe fatto tutte le domande più importanti. Forse solo una battuta: in Italia qualcuno ha mai avuto il potere che ebbe in Francia André Chastel?
ARGAN
Ma senta, forse quel qualcuno sono stato io. Io ho avuto il potere. Non lo nascondo. Ho avuto il potere nell'ambito dell'amministrazione delle Belle Arti. Lo esercito ancora, in forma polemica, dall'opposizione. Ma adesso, anzi, io poi La informerò, perché siccome io ho dovuto accettare, ma lo faccio anche volentieri perché è una ripresa di lavoro. Sa, adesso per me il lavoro proprio di creare un libro non lo faccio più, non ho più la forza fisico-mentale per farlo. Faccio cose di lavoro tranquillo che un po' anche mi divertono, come questo che sto facendo adesso, di questa traduzione del Fromentin.
PASSERINI
Ah sì?
ARGAN
Del Le maître d'autrefois , che è un libro delizioso, che io ho sempre amato. Siccome Einaudi fa queste traduzioni di scrittori tradotti da scrittori, allora ha ingaggiato, e ci siamo trovati d'accordo cioè, le scelte le abbiamo fatte noi: Giovanni Macchia fa Baudelaire, io faccio Fromentin. Mi diverte molto. Son venuto qui proprio per stare tranquillo.
PASSERINI
Sta lavorando a questo adesso?
ARGAN
Sì. E Lei pensi che da quando sono venuto qua, che sono venuto il primo di agosto, a oggi, ne ho tradotto un centinaio di pagine. Ed è delizioso, per--poi c'è una serie di ragioni per cui mi interessa e mi appassiona. Perché è un libro straordinario, è vero? Scritto in modo pesante, antipatico, fastidioso, ma tutta l'analisi sulla formazione della pittura olandese è splendida.
PASSERINI
Lo leggerò con molto interesse. Lei mi stava dicendo che mi avrebbe poi informata di questo suo lavoro, che adesso è disposto a fare ma--
ARGAN
Ah, sì, e faccio anche quello, lì come ministro della Cultura, ministro-ombra della Cultura del Partito anzi: deve essere uscito un mio articolo sull'Unità giorni fa che io non ho visto, perché ero qua, credo il quattro, o cinque.
PASSERINI
Ah sì? Devo controllare.
ARGAN
In cui ho scritto--avevo scritto articoli prima, per dire le colpe dei ministri, del governo, dei burocrati--adesso parliamo delle colpe nostre, di storici, di studiosi, che non--hanno preferito fare le "Maddalene" invece le "Marte." "Maddalene" talvolta ancora peccatrici anche. Adesso ho fatto già delle riunioni, a cui sono venuti in molti, per quanto indette io credo di fare anche l'interesse oltre che della cultura, anche quello del mio partito. Richiamare intorno a questo partito. Perché insomma oggi il problema della cultura, di una politica culturale, è estrememente importante, perché c'è una paurosa tendenza alla privatizzazione. Ora noi vogliamo non solo come cautela patrimoniale, per cui quello che è del paese non deve diventare di un ceto, ma anche proprio tutti i nostri studi. Si ritorna alla distinzione tra noi e i longhiani. Sono rivolti a pensare alla contestualità delle opere: quindi il tessuto culturale, l'unità che dev'essere salvaguardata nella sua interezza del patrimonio. Non delle singole opere, ma del patrimonio. Adesso farò, ai primi di ottobre, perché in settembre ho da farmi due piccole operazioni: una cambiare il pace-maker, una stupidaggine, e l'altra spero di potermi fare la cataratta, per potere vedere meglio. Ma ai primi di ottobre faccio queste riunioni invece proprio dei professori universitari, non verranno.
PASSERINI
Non verranno?
ARGAN
Non lo so. Be' alcuni verranno, forse molti. Dei sopraintendenti molti vennero, sì, che poi loro a venire rischiavano anche qualcosa che i professori universitari non rischiano. Comunque io li conoscerò, poi parliamo dei nostri compiti, delle nostre responsibilità e delle nostre colpe. È inutile che protestiamo che i burocrati non sanno conservare le opere d'arte, ma noi gliele lasciamo in mano loro. Ora, io ho visto che per quanto sia difficile--difficoltà ce sono in tutti i campi e in tutte le cose--un po' di potere, chiunque di noi lo ha in mano: anche uno spazzino, ha un po' di potere in mano. Noi professori universitari un po' di potere lo abbiamo, ne abbiamo molto, e quindi dobbiamo esercitarlo. Io credo di averlo esercitato perché, in fondo, nella mia vita, ho sempre avuto posizioni direttive, mai avuto posizioni subordinate. Sia nel ministero come ispettore centrale, quando l'ispettorato centrale era qualcosa che funzionava, e funzionava molto bene. E funzionava attraverso un rapporto collegiale. Guardi che Bertelli ha trovato negli archivi di Brera delle mie lettere alla Wittgens, vecchie lettere alla Wittgens, in cui si discuteva: il restauro bisogna farlo così, questo e quest'altro, in cui c'era questo rapporto veramente di studiosi. Tutto questo è perduto. È distrutto. Quindi io posso dire di aver esercitato--in questo fu anche Venturi che mi esortava ad esercitare in ambito universitario, a esercitare--un potere.


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