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1.1. CASSETTA NUMERO: I, LATO UNO
21 MAGGIO, 1991
-
ARGAN
- Le prime memorie sono mediche perchè mio padre era impiegato
nell'ospedale psichiatrico. Allora si chiamava "Manicomio di Torino."
Avevamo l'alloggio interno. Quindi, fin dalla prima giovinezza, ciò che
io vedevo ovunque, affacciandomi alla finestra della mia camera, uscendo
dal nostro alloggio, era qualcosa che aveva a che fare con l'anomalia
mentale, con forme di vera e propria follia. C'erano tra l'altro alcuni
dei ricoverati, o meglio delle ricoverate, perché l'ospedale torinese
era soltanto femminile, che frequentavano casa nostra, facevano piccoli
servizi, e quindi l'esperienza di questo mondo estromesso dalla vita
ordinaria, io l'ho fatta. E naturalmente, come era logico in un
ragazzino, la mia ammirazione, il mio ideale umano erano i medici del
manicomio, tanto più che li vedevo ogni giorno. Il nostro alloggio era
proprio accanto all'alloggio dei medici di guardia, dove si alternavano
i medici di guardia. Tutte le sere il medico di guardia veniva da noi,
prendeva il caffè, si chiacchierava con mio padre. E noi, mia sorella e
io, eravamo fino a una cert'ora presenti. Per cui conobbi questo mondo
di medici, ed ebbi così un'esperienza che forse può essere ricordata.
Uno di questi medici si accorse che la presenza della malattia mentale
era pericolosa per me, forse stava producendo qualche effetto negativo
sulla vita di un adolescente, e approfittando del mio interesse per la
medicina mi disse un giorno che andassi ad aiutarlo in laboratorio a
fare delle schede, poi d'improvviso mi fece indossare un camice bianco e
mi portò in una stanza dove c'era un'autopsia. Ecco, Signora, io credo
che quel camice bianco mi è rimasto addosso per tutta la vita e ha
costituito uno degli elementi irrazionali del mio razionalismo.
-
PASSERINI
- Bellissima storia.
-
ARGAN
- A questo debbo aggiungere come influenza più vicina, un fratello di mio
padre, che era avvocato e aveva interessi intellettuali, aveva una bella
biblioteca, di cui poi purtroppo una grossa parte fu distrutta dai
bombardamenti ma una parte minore l'ho ancora io, e fu lui a farmi
leggere per la prima volta [Benedetto] Croce. Lui era regolarmente
abbonato a
La Critica
di Croce, per cui molto presto cominciò il mio apprentissage
crociano, che si confermò-- Prego.
-
PASSERINI
- No, siccome stavo parlando di influenze da parte di padre, mi domandavo
da parte di madre se c'erano delle influenze di qualche tipo.
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ARGAN
- Signora, da parte di mia madre--mia madre era una maestra elementare,
però con una sensibilità morale molto sottile, ed era--pensi che,
essendo mia madre molto devota, avendole io detto ancora ragazzino che
non desideravo avere nessun rapporto con la chiesa, mia madre non solo
non esercitò alcuna pressione, ma arrivò alla discrezione che ancora
quando io ero all'università mi diceva: "Domani tu hai quell'esame--non
so, diciamo di latino o di greco--difficile permetti che faccia la
comunione per il tuo esame?"
-
PASSERINI
- Squisita. Quindi una figura anch'esse importante nella sua formazione.
-
ARGAN
- È stata molto importante. Molto importante. Devo dire, riconosco tuttora
delle analogie di carattere con mia madre. Poi avevo una sorella, ma ci
siamo veduti poco, perché io lasciai presto Torino: subito dopo la
laurea lasciai Torino. Purtroppo mia sorella è morta molti anni fa. Lei
stava a Torino, io a Roma e non ci siamo molto frequentati. Come
esperienza liceale, io ero al Liceo Cavour: ecco, forse il professore
che ebbe maggior influenza, i professori che ebbero maggior influenza su
di me furono due: uno il professor Lemmi, che poi ebbi anche come
professore all'università, perché passò all'università professore di
storia del Risorgimento, che mi diede le prime lezioni di antifascismo.
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PASSERINI
- Però già la Sua famiglia aveva un clima--?
-
ARGAN
- No, aveva un clima cattolico ma di grande timore nei confronti dei passi
sbagliati che potevamo fare noi. Mai ci è stato richiesto di essere
fascisti, ma mai nemmeno ci è stata fatta scuola di antifascismo, quella
la ebbi--
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PASSERINI
- No, dico, questo zio crociano--
-
ARGAN
- Questo zio era antifascista, mai iscritto al partito. Sì ecco, questo
sì, senza dubbio. E poi fu puesto professor Lemmi, che fu mio professore
in liceo, e poi vinse il concorso universitario proprio l'anno in cui io
presi la maturità classica, per cui me lo ritrovai all'università. Altra
persona che ebbe su di me una forte influenza, questa più diretta anche
per la mia professione di storico dell'arte, fu Giusta Nicco, che era
giovane e graziosa professoressa di storia dell'arte quando io feci i
primi anni del liceo. Naturalmente ricordo queste persone con molta
gratitudine e molto affetto anche perchè sono rimaste persone amiche
anche dopo l'università. Esperienze più approfondite le ebbi quando
cominciai a interessarmi ai problemi dell'arte. Naturalmente in una
prima fase mi interessai credendo di dover fare l'artista, di dover fare
il pittore. Per cui mi misi a dipingere, a frequentare le mostre, a
frequentare qualche artista che avevo occasione di conoscere. E pensi
che arrivai perfino, essendo in seconda liceo, a trovarmi un quadro
accettato alla--a una mostra della Promotrice, ed esposto, né più né
meno, perché lui lo volle, nella sala di [Felice] Casorati, che era per
noi a quel tempo la voce della modernità in arte. Ricordo che
quell'anno, credo che fosse il 1926 ma non ne sono certissimo, la
Promotrice [delle Belle Arti] festeggiò il più giovane al vernissage--il
più giovane e il più vecchio degli espositori. Il più vecchio era
Vincenzo Gemito, il più giovane ero io. Quindi presi la licensa liceale,
la maturità classica, e aderendo alla preghiera molto viva di mio padre,
mi iscrissi a Legge, perchè mio padre temeva che facendo il pittore
avrei fatto la fame. Aveva tutti i motivi per crederlo. Mi iscrissi a Legge, finché un giorno entrai così, per gusto di
esperienza e niente di più, nell'aula dove Lionello Venturi faceva
lezione sugli impressionisti, vidi sullo schermo l'
Olympia
di Manet e giurai che non avrei più toccato né una matita né un
pennello, perché la pittura che mi interessava era quella e non la mia.
E infatti non toccai più una matita né un pennello. All'università feci
subito gruppo con Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Enzo Monferini,
Norberto Bobbio, Arnaldo Momigliano, Massimo Mila. Era il nostro gruppo,
tutto tendenzialmente antifascista, che guardava come guide a tre
persone che erano con noi molto amichevoli: Giacomo Debenedetti, Carlo
Levi e Franco Antonicelli. Io, naturalmente, mi entusiasmai delle--delle
lezioni di Lionello Venturi, e decisi per il momento di studiare
soprattutto storia dell'architettura, per non cedere a quella
possibilità di giudizio empirico da uomo del--di mestiere che potevo
avere nel caso della pittura: "Ah, questo è ben dipinto" e fermarmi a
quel punto. Feci la mia tesi di laurea sull'architettura, precisamente
sul Trattato d'Architettura di Sebastiano
Serlio, e fu il primo scritto su Sebastiano Serlio, dopo secoli sarei
per dire, di oblio.
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PASSERINI
- Quindi fu una scoperta Sua in un certo senso?
-
ARGAN
- Bèh, Venturi mi aveva assegnato come tema di laurea i teorici
dell'architettura del '500. Quando io lessi il Trattato del Serlio, mi accorsi che aveva una quantità di
problemi, soprattutto in funzione del nascente Manierismo come nessun
altro dei teorici che avevo avvicinato. Quindi io feci--scelsi come
unico argomento il Serlio. Però devo dire che fin dall'anno precedente,
quando ero in terz'anno, ebbi due esperienze che cambiarono il corso
della mia vita e la decisero. La prima fu che essendo--avendo Lionello
Venturi, avendomi dato un'esercitazione, una delle normali esercitazioni
che si facevano prima dell'esame biennale, su [Andrea] Palladio, io
scrissi questa esercitazione, la portai a Venturi. Si doveva discutere
mi ricordo il mercoledì successivo, mercoledì Venturi non ne parlò. Io
pensai che l'avesse giudicata così orrenda de non poterne nemmeno
parlare. Timidamente mi avvicinai e lui mi disse: "L'ho già passata a
L'Arte per pubblicarla." E fu
pubblicata nell'aprile del 1930, quando io ero ancora in terz'anno.
Erano passati due mesi ed ero nella mia casa del manicomio, intento a
lavorare alla laurea, quando sento suonare il campanello. Vado ad aprire
e c'era un piccolo signore che con accento straniero mi chiede: "Lei
signor Argan?" "Sì! Ma dico, forse Lei cerca mio padre, mio padre è
nell'ufficio." "Ma Suo padre storico dell'arte?" "No, mio padre non è
storico dell'arte." "Chi scritto saggio su Palladio?" "Ah, quello l'ho
scritto io." "Piacere: Erwin Panofsky."
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PASSERINI
- Oh, no! [risata]
-
ARGAN
- A casa venne a cercarmi nemmeno--va be' telefono non l'avevamo allora!
Allora stetti con Panofsky, lo accompagnai per tutta Torino, abbiamo
stretto un'amicizia profonda. Ci scrivevamo, lui era ancora professore
ad Amburgo, io gli scrivevo, Alterabendstrasse no. 14, me lo ricordo
ancora. Poi lui lasciò la Germania naturalmente, andò in Inghilterra,
poi andò in America, e naturalmente i nostri rapporti furono interrotti
perché-- E si ripresero dopo la guerra. Posso dire che ho debolmente, in
parte, pagato il mio debito perché la prima cosa che feci quando fui
chiamato all'Università di Roma fu di dare la laurea Honoris Causa a
Panofsky. Venne, fu il suo ultimo viaggio in Italia. Siamo rimasti
ancora qualche tempo in corrispondenza, finché avendo io deciso di fare
la rivista Storia dell'arte , quella che
tuttora esce e tuttora dirigo con La Nuova Italia, scrissi a Panofsky
chiedendogli se mi dava un contributo per il primo numero, e ho ricevuto
una lettera di poche righe che mi diceva "Sorry, but I am terribly ill."
E poi sotto era agg--questa era scritta a macchina--e sotto, a penna,
"Adieu, Panofsky."
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PASSERINI
- Però è stato un bellissimo incontro! La forma in cui è avvenuto.
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ARGAN
- È stato--le dico ha cambiato la mia vita. Ha cambiato la mia vita in più
sensi, uno-- Vede io mi commuovo a parlarne.
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PASSERINI
- Eh ma è commovente. Anch'io lo trovo commovente.
-
ARGAN
- Uno, l'ha cambiata, nel senso che, così è stato un grande riconoscimento
per me. Ma anche perché ho capito qual era l'obbligo di civiltà che
danno gli studi. Quest'uomo che viene dalla Germania e va a cercare un
ignoto--poi scoprì che ero un ragazzo--uno per lui ero comunque un
ignoto-- Va a cercarlo a casa. Questo mi è parso una cosa di una tale
civiltà! Infatti questo ha avuto come effetto che quando--subito dopo la
laurea, perché ero allora in terz'anno, poi feci la laurea quando fu
aprile--Venturi mi chiamò e mi disse in confidenza che mi affrettassi a
finire la laurea perché lui avrebbe lasciato l'Italia subito dopo la
fine dell'anno accademico. Io feci la--la laurea, naturalmente con tanto
successo, e feci il concorso per la borsa di studio triennale al
Perfezionamento di Roma. Era una borsa sola per tutta l'Italia, e la
vinsi e venni quindi a Roma con [Pietro] Toesca. Frequentando ancora
Adolfo Venturi, il vecchio padre di Lionello, il grande storico, che
però era ancora vivente e anche molto attivo, e Pietro Toesca. Sono
state anche quelle esperienze importanti per me: con Adolfo Venturi
direi soprattutto di carattere sentimentale, perché quell'uomo aveva per
me non l'affetto dei padri per i figli, ma dei nonni per i nipoti: un
affetto senza responsabilità, tutta tenerezza. E Toesca che era da un
punto di vista metodologico molto lontano da me, perché a me
interessavano i problemi concettuali, mentre a Toesca interessavano
soprattutto i problemi filologici. Fu tuttavia estremamente aperto. Mi
volle come suo assistente e siamo rimasti amici fino al giorno della
sua--della sua morte. Tornando un po' indietro, il gruppo torinese col
quale io strinsi amicizia aveva sì un orientamento quasi direi
religiosamente crociano, con l'eccezione di Enzo Monferini, che ha
scritto pochissimo, ma è una delle persone più intelligenti che io ho
conosciuto nella mia vita--ora purtroppo è morto da molti anni--perché
aveva quel tipo di intelligenza che direi un po' ebraica, nel senso di
essere estremamente critico, di una penetrazione critica proprio a
trapano, con in fondo un disinteresse costruttivo che io un po'
biasimavo, e un po' invidiavo perché era quell'interesse disinteressato
alla cultura, quello che non si preoccupa: "Adesso prenderò la cattedra,
farò questo, farò quest'altro." Questo Enzo Monferini--il padre è
l'attuale soprintendente alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna--Enzo
Monferini visse e morì, con l'interruzione razziale, visse e morì come
professore di liceo. Ma ancora gli studenti di liceo che son stati suoi
allievi a Roma le ricordano con entusiasmo perché era un uomo che apriva
la testa del prossimo. Su quell'occasione--naturalemente attraverso quel
gruppo, e attraverso una nostra compagna di università che era amica di
casa Croce, Malvano--
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PASSERINI
- Ah, sì, è un nome noto.
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ARGAN
- Incontravamo molto spesso il Croce--
-
PASSERINI
- Si riferiva a questo quando prima io l'ho interrotta, Lei stava dicendo:
"L'orientamento crociano mi fu confermato in seguito?"
-
ARGAN
- Ecco: fu confermato dal crocismo di Lionello Venturi e dal fatto che
Croce era la bandiera degli intellettuali antifascisti, e degli
intellettuali di quel tempo, che erano intellettuali, diciamo così di
impostazione al massimo gobettiana, ma che noi-- Io ho letto Gramsci
dopo la guerra, perché prima era impossibile leggerlo, ché non si
trovava, non c'era la possibilità di procurarselo altre tutto. E Croce,
un po' per l'atteggiamento conforme al suo pensiero, e un po' credo per
un senso di precauzione paterna nei nostri confronti,--sì--ci esortava
ad avere una coscienza lucida di quello che accadeva e della sua
negatività, ma cercava di dissuaderci dal prendere posizioni drastiche.
Ricordo che un giorno disse a me, evidentemente non ricordava che io ero
storico dell'arte, credeva che mi occupassi di letteratura, e mi disse:
"Volete fare l'antifascista? Scrivete un bel saggio sul [Torquato]
Tasso."
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PASSERINI
- Ah, ho capito: l'idea era quella.
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ARGAN
- Era la reazione alla volgarità culturale del fascismo. Però Signora,
devo dire, che questa fu la posizione di tutti noi. Noi siamo cresciuti
ignorando che esistesse un problema operaio. Non esisteva, non lo
conoscevamo, era estraneo completamente alla nostra esperienza.
Siamo--il nostro antifascismo era, come nel caso del Croce, un
antifascismo di disgusto per la volgarità culturale. Cominciò ad
assumere una colorazione morale al tempo della guerra d'Etiopia. Questa
colorazione morale si intensificò molto al tempo della guerra di Spagna,
è diventata odio e volontà di agire con la guerra--l'alleanza con la
Germania, con tutto ciò che l'alleanza con la Germania ha comportato.
Perché la Germania obbligava i suoi alleati, soprattutto i suoi alleati
ossequenti com'era l'Italia, a partecipare delle sue peggiori
nefandezze, forse per assicurarsi una complicità. Quindi ci impose una
campagna contro gli ebrei che nessuno in Italia sentiva. Anzi: i
rapporti erano perfino di preoccupata--preoccupato ossequio. Io mi
ricordo che quando io ero ragazzo e giocavamo in campagna a Cavoretto,
dove avevamo una casa con i nostri amici Luria, uno dei quali è il
grande-- Uno dei quali è il grande premio Nobel, vero--? Non c'è nulla
di--di meno che--meno che rispettoso, ma sembrava un modo corrente, un
modo non riguardoso, e fu proprio quel senso di complicità che ci spinse
dalla parte opposta. Poi venne la guerra, venne l'occupazione tedesca,
che ovviamente obbligò tutti a prendere una posizione. Non era possibile
in quel momento non prendere una posizione. Ovviamente noi ci siamo
legati alla Resistenza. Qui a Roma non era--a Roma è durata troppo poco
l'occupazione tedesca per dar luogo a un movimento di resistenza esteso
ed organizzato. C'era l'azione eroica dei GAP [Gruppi di Azione
Patriottica] comunisti, ma all'infuori di questo era tutto lavorio di
stampa, di diffusione di notiare. Anch'io non ho fatto altro per carità
che questo lavoro di stampa. Però fu in quella occasione che abbiamo
preso coscienza del mondo operaio, il quale aveva una iniziativa
politica molto--infinitamente più forte della nostra in quel momento. E
allora abbiamo capito che erano politicamente più avanti di noi. Infatti io fin dal--ancora essendoci la guerra--mi iscrissi a quello che
allora si chiamava, era clandestino naturalmente, il "Partito Socialista
di Unità Proletaria." Rimasi in quel partito parecchio tempo dopo la
guerra, quando passai--quando per un dissenso che ebbi a proposito della
sovvenzione di Stato alle scuole private, alle quale io ero
contrarissimo e il Partito acconsentiva--uscii dal Partito Socialista e
mi legai--perché ero molto amico suo, avevo per lui una ammirazione
profondo--con la sinistra indipendente di Ferruccio Parri.
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PASSERINI
- Nel frattempo non aveva avuto rapporti con [Pietro] Nenni, il quale di
queste organizzazioni era--
-
ARGAN
- Come socialista. Sì, sì, il Partito Socialista di Unità Proletaria
scomparve con la fine della guerra, divenne il Partito Socialista. Io
ebbi repporto con Nenni, certo, e lo ammirai molto. Inoltre, io allora
non mi sarei potuto inserire nel Partito Comunista per il fatto che
purtroppo, in fatto di arte aveva una posizione che io non potevo in
nessun modo condividere. Capivo che questo rientrava non in una linea
teorica fortemente impegnativa, rientrava nei limiti della cultura di
[Palmiro] Togliatti, che erano gli stessi limiti della cultura di
Benedetto Croce. Perché, Signora, a dirci che [Arthur] Rimbaud era un
esempio di stupida disumanità, a dirci che fecero bene a far fuggire, a
far andar via Mallarmé da Besançon perché anche Platone diceva che le
città devono scacciare i cattivi poeti! Queste cose le abbiamo lette nei
libri di Croce, non ce le ha dette Mussolini, il Fascismo, che per la
verità ignorava completamente chi fossero sia Mallarmé che Rimbaud e non
potevano dirne né bene né male. Anzi questo limite crociano è quello che
corresse in noi Lionello Venturi. Crociano, come scelta politica e anche
come impostazione idealistica generale, ma naturalmente non poteva
accettare le cose che Croce ha scritto sull'arte figurativa, soprattutto
nel libro sul Barocco, dove si dicono cose terribili su Caravaggio, come
se fosse un retore e nient'altro. E allora Croce--fu Lionello Venturi
che ci indusse a leggere [Heinrich] Wölfflin, a leggere [Alois] Riegl, a
leggere Panofsky--ci avvicinò alla corrente di pura visibilità e
all'iconologica che ne discendeva con apparente contraddizione, ma con
una consequenzialità che credo quasi necessaria-- Dunque, la guerra--
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PASSERINI
- Posso fare un'altra domanda?
-
ARGAN
- Prego, Signora.
-
PASSERINI
- Due domande: una, se Le è possibile, se vuole, commentare brevemente il
Suo rapporto, personale anche, con il Suo maestro Lionello Venturi, e
l'altra è una domanda, pensando a quello che ha detto Norberto Bobbio,
che non è esistita una cultura fascista. Se lei è d'accordo con questo
giudizio.
-
ARGAN
- Perfettamente d'accordo. È esistita un'ignoranza fascista cioè un tipo
di ignoranza proterva invece che di ignoranza umile, ma non è esistita
una cultura fascista. Le persone che possono sembrare averla
rappresentata--perché lo abbiano fatto, non lo so, però non mi sento di
chiamare fascista la filosofia di Giovanni Gentile e non mi sento di
chiamare fascista Giuseppe Bottai, che, volendo e dovendo essere
sincero, è stato il miglior Ministro della Pubblica Istruzione che io ho
conosciuto nella mia lunga vita. Quindi non è esistita una cultura
fascista. È esistita la buona fede, o comunque il tentativo di
giustificazione di persone della cultura che si erano legate al Fascismo
e volevano trovargli una giustificazione, come forse fu il caso di
Gentile. Ma non si può parlare di cultura fascista. Il mio rapporto con
Venturi: ecco, quel libro, Lei vede lì, quel Cézanne, è di Lionello
Venturi, è apparso postumo da Skira e porta una mia prefazione. Perché
la signora Skira, che era la figlia di Lionello Venturi, la Rosa Bianca
Venturi, tuttora vivente, sapendo i rapporti col padre, e sapendo che il
padre desiderava che a presentare i suoi libri fossi io. Così, come io
oggi mi faccio fare le prefazioni dai miei allievi.
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PASSERINI
- Una bella idea.
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ARGAN
- E bella, molto ambiziosa eh! Sembra generosa, ma è molto ambiziosa.
Quella prefazione comincia esattamente con queste parole: "Nei confronti
di Lionello Venturi ho un solo rimorso, gli ho voluto molto bene, ma lui
me ne ha voluto di più." Perché Lionello Venturi aveva nei nostri
confronti, di tutti gli allievi, si può dire specialmente nei miei
confronti, perché io credo che molto presto mi abbia un po' eletto come
il suo successore. Lionello Venturi è stato un uomo di un grande
coraggio morale, perché non aveva una struttura mentale che lo portasse
necessariamente a essere antifascista. Non si era mai occupato di
politica. Inoltre era un uomo che aveva fatto da volontario la Prima
Guerra Mondiale, aveva due medaglie d'argento. Insomma, poteva anche
essere legato a quel suo passato, ed era, credo, legato a quel suo
passato, finché si persuase che quel passato non seguitava, era semmai
tradito dal Fascismo. Allora si intensificò il suo rapporto con Croce,
estese la sua esperienza filosofica, perché quella di Croce era proprio
insufficiente alla nostra disciplina di storici dell'arte, e ci orientò
in quel-- Poi andò a Parigi.
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PASSERINI
- Ho letto che Lei andò a trovarlo.
-
ARGAN
- Io andai a trovarlo, fui visto dalla polizia, ho avuto delle storie, per
cui mi trasferirono da Torino, dove io ero impiegato alla Pinacoteca da
pochi mesi, a Trento, dove però non andai, perché Pietro Toesca, senza
dirmi nulla, e senza che io gli chiedessi nulla, è andato da Gentile che
era direttore--dirigeva l'Enciclopedia Treccani
di cui Toesca era uno dei redattori--e gli ha detto che va
bene, se io non potevo stare a Torino mi mandassero però in un posto
dove potessi studiare. Perché era una persona che aveva interessi e
attitudini di studio. Gentile, che non mi conosceva affatto,
afferrò--afferrò il telefono ed impose a [Francesco] Ercole, Ministro
della Pubblica Istruzione, di mandarmi dove voleva, in un posto dove io
potessi studiare. A quel punto, Cesare Brandi--che era già mio amico, ed
era ispettore alla Sopraintendenza di Bologna, dove era molto apprezzato
dal Sopreintendente Calzecchi, il padre della traduttrice dal
greco--Brandi dirigeva lui internalmente la Pinacoteca--la biblio--la
Pinacoteca Estense di Modena e rinunciò perché potessi prenderla io.
Allora esistevano questi gesti di amicizia profonda tra studiosi, oggi,
purtroppo, molto meno. Io stetti a Modena finché fui comandato a Roma
presso questo organismo nuovo che avevano fatto; cioè, eravamo tre
funzionari comandati che hanno costituito il primo nucleo
dell'ispettorato centrale. Il mio rapporto con Venturi divenne
particolarmente stretto, naturalmente, dopo il suo ritorno dall'America
in Italia, prima che finisse la guerra, subito dopo la liberazione di
Roma. Ritornò a Roma, ebbe la cattedra all'Università di Roma, si dedicò
con un impegno molto intelligente a quella che pareva la possibile
ricostruzione di una cultura europea, e dell'inserimento dell'Italia in
una cultura europea. Lo ha fatto veramente con un impegno completamente
disinteressato, riconoscendo tutti quelli che erano stati i valori della
cultura e dell'arte che si erano conservati durante il Fascismo. Di qui
l'amicizia di Venturi con Giorgio Morandi--con molti altri oltre a
Morandi, cito il più grande--che era cioé molto amico nostro, molto
vicino a noi. Poi Lionello Venturi adoprò la sua autorità per iniziare,
aiutare Siviero, che era un patriota, un partigiano che si dedicava al
recupero delle opere d'arte portate via dai Tedeschi. Lui lo appoggiò ed
effettivamente molte cose si ritrovarono, poterono essere riportate in
Italia. Quindi Venturi non ha avuto nessuna rivalsa personale, ma la
volontà di creare un equilibrio culturale avanzato, non certo in senso
comunista, in senso socialista, anzi più socialdemocratico,
liberalsocialista. Poi lui naturalmente lasciò, andò in pensione e
rimanemmo vicini per quei pochi anni ancora che ebbe di vita, fino al
giorno di Ferragosto del 1961, quando morì all'istante. Io fui una delle
prime persone che gli giunsero vicino. Lionello Venturi. Vede Signora,
non so ora scrivere un libro qui è difficile. Il libro che ho scritto su
Michelangelo Architetto mi è costato
una fatica enorme, perché anche se si può ancora lavorare, come io posso
ancora lavorare pur avendo ottantadue anni, insomma manca--ci si ripete,
si ricade nelle cose che si sono già dette, è molto penoso. Si possono
fare cose brevi, cose lunghe--è impossibile. Però se ci riesco, voglio
fare ancora un libro proprio su Lionello Venturi e sul pensiero di
Lionello Venturi. Einaudi insiste molto perché io lo faccia, e con ogni
probabilità, con ogni probabilità, lo farò certamente se vivrò.
-
PASSERINI
- Io spero proprio che Lei lo faccia.
1.2. CASSETTA NUMERO: I, LATO DUE
21 MAGGIO, 1991
-
ARGAN
- Naturalmente l'esperienza vissuta durante la guerra e immediatamente
dopo la guerra mi ha portato molto vicino al Partito Comunista. Conobbi
Togliatti, conobbi molti allora del Partito, e se non mi iscrissi fu
perché, come Le dissi, avevano quell'orientamento culturale che io non
potevo assolutamente condividere. Passai come Le dicevo nella sinistra
indipendente di Parri. Nel '75 io ebbi un infarto gravissimo, per cui dopo che già ero fuori
pericolo per alcuni mesi, stavo seduto in poltrona, non potevo muovermi.
Venne Ferruccio Parri a trovarmi qui, proprio in questa stanza, a
chiedermi di essere Senatore della Sinistra indipendente. Io gli dissi
che non me lo sentivo assolutamente, non potevo prendere nessun impegno
di lavoro, ero in uno stato di grande debolezza. Al che, lui mi disse:
"Ma noi vorremmo avere il tuo nome. Portati almeno nel Consiglio
Comunale. Lì non avrai niente da fare se non quella volta che vuoi
andare a parlare dell'urbanistica romana. "E vabbè, portatemi." Mi
portarono al Consiglio Comunale e io vinsi, però me ne andai ad
Ansedonia al mare, dove ho una casuccia a riprendermi. Quando una sera,
suona il telefono, era Enrico Berlinguer che mi dice: "Tu sei il nuovo
sindaco di Roma." Io naturalmente dissi che lui era matto, che cercasse
un altro. Lui mi spiegò che, essendo io professore d'università, essendo
non militante del Partito Comunista, ero l'unico nome sul quale i
Democristiani capeggiati da Andreotti accettavano di astenersi invece di
votare contro. E allora mi ha detto Enrico, al quale io ho sempre voluto
molto bene: "Ci fai perdere la vittoria se rifiuti." So che io ho detto:
"No, non lo faccio, o se posso farò perdere la vittoria alla sinistra.
Accetto, finché vivo." Lo feci per tre anni. Poi ebbi un altro--col
quale il cardiologo Masini, il primo cardiologo romano, mi disse: "Se
Lei seguita a fare il sindaco di Roma, non Le dò tre mesi di vita."
-
PASSERINI
- Lo credo.
-
ARGAN
- Perché era una cosa. Però l'ho fatto e adesso, guardando indietro quella
esperienza, devo dire che non la considero un'esperienza negativa, per
vari motivi. Il primo è che essendomi molto occupato di urbanistica, ho
visto che la città reale, era qualcosa di completamente diverso da
quello che noi considerevamo la città normale, la città regolare, con
problemi di una difficoltà spaventosa, anzi di una impossibilità di
soluzione per cui io non ne faccio nemmeno una colpa ai democristiani
che sono adesso al potere, perché sono problemi irrisolvibili. L'altro
motivo è che riuscii a ottenere la seconda università di Roma, che il
Ministero della Pubblica Istruzione non voleva concedere. La ottenni,
devo dire, perché era giusto. Ebbi l'aiuto di [Giovanni] Spadolini, che
allora era presidente della Commissione Congiunta per l'Università
Camera Senato. Sono contento perché si è potuta fare una politica
culturale che non era esattamente quella che io avrei voluto, ma che era
comunque una politica culturale intelligente come quella di Nicolini,
che io appoggiai con tutte le mie forze. E infine per l'esperienza che
ebbi del rapporto con il Vaticano, e precisamente con Paolo VI. Perché,
quando noi abbiamo preso il Comune, la difficoltà di rapporto con i
Democristiani poteva avere consequenze gravissime, fino al ritiro del
personale che lavorava nei giardini d'infanzia, negli ospizi, negli
ospedali, che era tutta gente che era stata messa in quei posti dai
Democristiani. Allora decisi di saltare il fosso e prendere un rapporto
con Paolo VI. Lo feci, fu estremamente cortese, cordiale. Ebbi quattro
colloqui privati, di un'ora ciascuno, tête-à-tête con lui, e devo dire
che quel tipo di spiritualità, certo molto diverso, molto lontano da
ogni mia forma di pensiero, mi ha fatto una notevole impressione: era
una grande personalità.
-
PASSERINI
- Ah, sì?
-
ARGAN
- Il fatto di aver avvicinato questo mondo della chiesa non ha avuto
nessun--nessun effetto. E arrivato alla mia età, spero di morire come
sono vissuto, senza alcun rapporto con la chiesa.
-
PASSERINI
- Cioè da laico?
-
ARGAN
- Sì, completamente da laico. Però completamente da laico, devo dire che
la dimensione umana molto tormentata, di quell'uomo--Lei pensi che una
volta mi ha detto, proprio perché lui metteva il discorso su un piano di
comunicazione fuori di ogni cerimonialità, ci siamo trovati daccordo su
un punto, io gli ho detto, cosa che non è molto protocollare da dire a
un Papa: "È certo Santità, anch'io che non sono credente--" E poi mi
sono immediatamente accorto della gaffe, e sono rimasto così. "Quanta
umiltà, Professore, e noi che crediamo di aver trovato Dio!" "A tout
seigneur tout honneur."
-
PASSERINI
- Quindi questo fu un dialogo arricchente per Lei, fu un'esperienza
importante questa?
-
ARGAN
- Non quella in particolare. Fu un'esperienza importante, fu l'esperienza
di avvicinarmi a un'istituzione che io in certo modo-- Fu importante,
come sarebbe stato importante per me incontrare [Martin] Heidegger,
anche se non ho nessun rapporto di pensiero con la sua filosofia. Però
volevo dirLe che dopo aver fatto il sindaco di Roma per tre anni, avere
sperimentato da vicino la collaborazione con persone che già stimavo
come Enrico Berlinguer, per il quale ho concepito un affetto profondo in
questi tre anni, avendo fatto esperienza della profonda onestà dei miei
collaboratori, della loro lealtà. Signora: io ero l'ultimo venuto. Non
ero nemmeno iscritto al loro Partito. Mi dica se in qualsiasi altro
partito italiano al secondo giorno non mi avrebbero dato lo sgambetto e
fatto cadere. Ho avuto da loro una collaborazione spesso anche
competente, ma anche quando non lo era, leale, onesta, limpida, tanto
che io uscendo dalla carica di sindaco, sono entrato nel Partito
Comunista, sono rimasto nel Partito Comunista e mi auguro di poterci
restare fino alla fine della mia vita. Perché se il Partito Comunista
dovesse fare delle alleanze, che in questo momento io ritengo
assolutamente indesiderabili, non mi sentirei di collaborare. Per il
momento, il PDS [Partito Democratico della Sinistra] è un Partito
assolutamente democratico, tanto che ha voluto farmi Ministro-ombra per
quanto io sia uno dei quattro di questo pseudo-governo che è
all'opposizione. Io sono sempre stato e rimango vicino ad [Pietro]
Ingrao, a Tortorella, a Chiarante. Però sentii proprio il dovere di
legarmi a questo Partito di cui avevo verificato la grande buona fede,
la grande onestà. Lei vorrà sapere qualcosa del mio sviluppo come
pensiero di studioso.
-
PASSERINI
- Quindi torniamo indietro.
-
ARGAN
- Torniamo indietro. Dunque, dal crocismo iniziale, sia pure con la
deviazione in senso di pura visibilità che ci aveva dato Venturi, con la
Resistenza naturalmente ho fatto delle esperienze di tipo marxista:
Gramsci, innanzi tutto, ma anche una lettura più approfondita degli
scritti di Marx. E nello stesso tempo mi sono avvicinato,
necessariamente da un lato al pensiero Freudiano, dal quale il pensiero
di Croce ci aveva tenuti lontani come se fosse lebbra, dicendo che era
una cosa che risolutamente non è da riguardare. Tutte le volte che
gliel'abbiamo chiesto ci ha detto che assolutamente non ci mettessimo il
naso, che non era affare nostro, se ne occupassero i medici. Quella fu
un'esperienza importante, tanto più che non potei non dialettizzarla con
il marxismo. E ancora oggi penso che se si trovasse una dialettica
concreta di marxismo e freudismo, ci sarebbero per il mondo più
possibilità di salvezza di quante oggi non ce ne siano.
-
PASSERINI
- L'idea di Francoforte.
-
ARGAN
- Come?
-
PASSERINI
- L'idea dei Francofortesi.
-
ARGAN
- Sì, poi appunto, siamo stati portati a--abbiamo letto naturalmente anche
noi, comme tutti: [Theodor] Adorno, [Herbert] Marcuse, [Jean-Paul]
Sartre, [Maurice] Merleau-Ponty e questo ci ha aperto a una esperienza
dell'arte cosiddetta informale. Però io fin da principio, sentii e dissi che era veramente l'arte della
crisi, così come la filosofia di Sartre era la filosofia della crisi.
Perché, poiché mi ero [sic] sempre rimasto addosso quel famoso camice
bianco di cui Le ho parlato, ho sentito il bisogno di una reazione in
senso razionalistico. Per cui mi sono--ho approfondito lo studio in
fatto di arte moderna, del razionalismo architettonico. E siccome-- Io
ho sempre voluto camminare simultaneamente sul binario dell'antico e del
moderno, perché l'arte antica non mi interessa se non in quanto è un
problema moderno, è un problema nostro. Quale fosse il problema di
Masaccio io non lo so, so che problema è Masaccio per me, uomo di
quest'epoca. E quindi dall'altro canto studiai Brunelleschi, Gropius da
un lato, Brunelleschi dall'altro. Scrissi il libro che ha pubblicato
Einaudi su Walter Gropius e la Bauhaus ,
che fosse--considerare, forse il libro che mi è più caro fra tanti, per
delle ragioni anche sentimentali che non nascondo. A spingermi a
quell'esperienza fu mia moglie [Anna Maria Mazzucchelli] che si era
occupata molto di architettura moderna con [Edoardo] Persico e
[Giuseppe] Pagano a Milano. Ora purtroppo è morta da molti--parecchi
anni.
-
PASSERINI
- Lei si era sposato nel frattempo?
-
ARGAN
- Mi sono sposato, no, nel dicembre '39, prima che scoppiasse la guerra
nostra. Era scoppiata già la guerra tra-- Quel libro su Gropius è il
libro che io scrissi come critica di tutto il passato e prospettiva per
un futuro probabile, che tuttavia io vedevo più realizzabile attraverso
una critica acerbamente negativa come quella di Gropius, uomo della
sconfitta, che non nell'ottimismo di un Le Corbusier, uomo della
vittoria, della Francia vittoriosa. Però, nello stesso tempo in cui sentivo il bisogno di questa esperienza
razionale che mi portò a scrivere quasi simultaneamente su Gropius e su
Brunelleschi, il libro su Brunelleschi che pubblicò Mondadori, sentivo
il bisogno di una reazione, di cercare altre--perché sentivo il limite
di quel razionalismo. Ecco perché scrissi un libro sull'Angelico, che è
il risultato della mia esperienza pura visibilità e Marxismo. Perché è
un libro che, non so se Lei sa, che ho avuto una strana avventura.
-
PASSERINI
- No, non so.
-
ARGAN
- Uscì nel '55 che era l'anno centenario della morte dell'Angelico.
Eugenio Battisti, che era un mio caro amico, lo recensì nel Mondo di Pannunzio, con un grande articolo
di tutta una pagina intitolato "L'Angelico senza aureola." Un monsignore
del Vaticano preparò un articolo per l'Osservatore
Romano che era intitolato--lo seppi per vie indiscrete:
"Scherza coi fanti [e lascia stare i Santi]." Senonché, dovendo Pio XII
fare un discorso all'inaugurazione della mostra dell'Angelico ed
essendo--io non l'ho amato certamente--come tutti questi uomini di
chiesa sono culturalmente informati, si fece portare tutti i libri
sull'Angelico, s'informò, lesse anche il mio, e capì che
quell'interpretazione dell'Angelico come politico, come persona che
faceva una politica religiosa, serviva al suo gioco molto più che non
l'Angelico estatico che guardava gli angeli volare in cielo. Allora
cominciò il suo discorso: "Le più recenti ricerche, che onorano le ha
compiute." L'articolo del monsignore non uscì più, e il libro ebbe--mi
ha detto Skira--un grande successo. E scrissi quello perché mi
interessava vedere come finiva la tradizione della Scolastica, la
tradizione tomistica nella Firenze del '400. E poi scrissi un libro su
Botticelli, perché mi interessava vedere lo sviluppo di un pensiero
neoplatonico. E quello che poi mi ha portato a scrivere su Michelangelo.
-
PASSERINI
- Quindi è proprio una storia, una bibliografia intellettuale dialettica?
-
ARGAN
- Sì, mentre per l'arte mi portai prima-- Io in quanto all'arte moderna ho
pensato che non è compito del critico incoraggiare questa o quella
corrente. È giusto che gli artisti si preoccupino di conservare l'arte.
Io sono un critico, cerco di conservare la critica a un mondo che fa
tutto il possibile per perderla. E quindi io mi sono sempre posto il
problema di che cosa significhi--un giorno Gropius mi disse--Gropius era
un uomo di una grande civiltà umanamente molto ricco e molto profondo, e
mi disse: "Io Le sono molto grato di quello che Lei ha scritto su di me.
Ma non tutte quelle cose che Lei ha detto che io ho pensato le ho
pensate." E io gli ho detto: "Gropius, non me ne importa proprio nulla,
a me importa che Lei abbia fatte pensare a me."
-
PASSERINI
- Quindi l'atteggiamento era quello non di interpretare, ma di
selezionare.
-
ARGAN
- Non di interpretare ma di enucleare dall'opera d'arte una cultura che si
è strutturata, che si è elaborata, che si è sviluppata, attraverso la
figurazione, attraverso dei fatti visivi, invece che attraverso dei
fatti verbali. E che conserva in questo una maggiore specificità
disciplinare e quindi anche una maggiore attualità. In quanto, in tutta
la sua storia, la parola è un espressione comune per tutte le
discipline, mentre la storia dell'arte si presenta come prima disciplina
che non si serve della parola, che ha un altro modo di comunicazione.
Pragmatico, ma un altro modo di comunicazione. Io ho sempre pensato
cioè, che il mio compito era quello di cercare di dare una
giustificazione storico-critica, cioè problematica, di quello che
accadeva sotto gli occhi miei, nell'arte contemporanea.
-
PASSERINI
- Quindi la connessione con altre discipline come la filosofia e la
psicanalisi era a questo scopo?
-
ARGAN
- A questo scopo, a questo scopo. Naturalmente la mia preferenza, sempre
per quel famoso camice, era--e questa è la critica che adesso mi faccio.
-
PASSERINI
- Cioè?
-
ARGAN
- Di avere non negato, ma sottovalutato l'importanza enorme dei fenomeni
artistici collegati appunto con la psicanalisi. Sì ho sempre
riconosciuto l'importanza di un [Marcel] Duchamp, di un Max Ernst, non
di un [Salvador] Dalí che ho sempre odiato con tutte le mie forze. Però
io ero dall'altra parte, anche per i miei interessi politici che non
sono mai venuti meno, e che non potevano venir meno. Perché vede, anche
questo Le spiega anche la mia posizione politica attuale. Quando mi
chiedono perché io, storico dell'arte, sono Comunista, io rispondo:
"Sono diventato comunista perché sono uno storico dell'arte perché
ritengo che l'opera d'arte, le opere d'arte, la cultura, debba essere
assolutamente di disponibilità di tutti, alla portata di tutti." Il solo
partito che mi dà la speranza di leggi che difendano l'interesse
pubblico del bene culturale in rapporto all'interesse privato dei suoi
possessori è il Partito Comunista. Il solo partito che non l'ha fatto
come io avrei voluto, ma che comunque mi dà la speranza di farlo prima o
poi, di fare delle leggi urbanistiche che considerino i suoli urbani
come suoli di pubblica utilità invece che come oggetti di profitto
speculativo, è vero? E per questo io sono diventato Comunista: perché è
la linea politica che mi dà maggiore fiducia--dà maggiore fiducia alla
mia disciplina.
-
PASSERINI
- Leggendo le cose che Lei ha detto nel corso degli anni, per Lei è molto
importante il rapporto col pubblico, cioè la sfera pubblica che torna
come interesse collettivo, e non invece appropriata di interessi?
-
ARGAN
- Questo è stato sempre per me fondamentale. Anche perché naturalmente mi
ponevo il problema di una cultura che coinvolge l'intero pubblico, come
una cultura dei mass-media, della comunicazione di massa. È inutile non
porselo questo problema, o di far finta che non ci fosse. Ma Signora:
noi tutti, alle otto e un quarto di sera noi vediamo la stessa cosa,
abbiamo più o meno la stessa reazione emotiva, milioni di persone. Ma
Lei capisce che questo è il fascismo, senza gagliardetti, stivali,
bandiere, fanfare, ma può portare al fascismo. Per questo io sento il
dovere di fare professione politica, perché ho cercato di fare e voglio
fare tutto quello che posso fare per impedire che il collettivismo
della--della società dei consumi, della società dell'informatica,
eccetera, sia egemonia capitalistica invece che società senza classi.
-
PASSERINI
- Certo, perché poi in Italia si accompagna alla lottizzazione dei
privati--
-
ARGAN
- Si accompagna alla lottizzazione dei privati, e si accompagna purtroppo
alla corruzione dei partiti.
-
PASSERINI
- E lo so, lo so. Posso fare una domanda anche sul futuro? L'Europa è per
Lei una speranza, o Lei pensa che l'Italia--
-
ARGAN
- No Signora, l'Europa per me è una memoria. È stata per noi--per chi come
me è cresciuto in epoca fascista, cioè in un'epoca in cui lo Stato
rifiutava alla nazione il diritto di essere una nazione europea, il
titolo di essere una nazione europea. Quindi io sono cresciuto avendo
una ideologia d'Europa, che era poi molto vicino alla mia ideologia
razionalista. So quali sono i limiti di questi razionalismi, anch'io ho letto [Gianni]
Vattimo e gli altri, lo so perfettamente. Però vede, in una prefazione a
una raccolta di saggi che è stata fatta recentemente, io ho scritto che,
io ormai sono razionalista come quei vecchi gentiluomini che si battono
per l'onore della regina anche se sanno che è andata a letto col
cocchiere!
-
PASSERINI
- Ho capito. Quindi un po' disillusa questa-- No, vedendo lo stato
dell'Italia, che per molti versi è disastroso, facendo il paragone anche
con altri paesi, resta questa idea che attraverso l'inserimento
nell'Europa qualche cosa--
-
ARGAN
- No, questo io proprio non lo spero, e il fatto del crollo dei paesi
dell'Europa orientale lo dimostra. Era comprensibile che prima o poi si
dovessero liberare da quella oppressione sovietica odiosa, che io ho
sempre detestato e biasimato, perchè invece di comportarsi da nazione
amica e fraterna verso questi paesi, li hanno derubati, esauriti. Però
quei partiti--cessando di essere--quei paesi, cessando di essere
soggetti all'Unione Sovietica non sono diventati dei paesi comunisti
democratici, ma si avviano a diventare dei paesi fascisti.
-
PASSERINI
- Questo è il Suo timore. Quindi prospettive non belle per il futuro.
-
ARGAN
- Non belle. Questa è la ragione per cui io, dell'arte contemporanea, di
quello che fanno questi giovani, non scrivo. Non scrivo proprio per
elezione. Perché, perché devo comunicare a loro la mia sfiducia? Io in
fondo vivo questa sfiducia, e la vivo così, con il piccolo compiacimento
egoistico di quello che sa che tanto è una faccenda di mesi e poi è
finita. Non ho nessuna premura per carità, però insomma, a ottantadue
anni non è che rimane molto da campare. E quindi ci vuole poco a non
trovare reazioni ad un pessimismo per il futuro. Mi sembrerebbe
disonesto. Ecco, penso forse ancora a Croce che ci diceva, sì di essere
antifascisti, ma ci dissuadeva da posizioni di lotta politica esplicite.
-
PASSERINI
- Lei ha introdotto parlando di se stesso il tema della fine della vita, e
anche nella Sua filosofia, e nella Sua critica d'arte, Lei ha parlato
della morte come un orizzonte molto presente.
-
ARGAN
- Sì Signora. Intanto perché a parlare della morte dell'arte non sono
stato certamente il primo. Il primo a parlarne è stato Giorgio Guglielmo
Federico Hegel, il quale ha per primo avvertito un'incompatibilità
dell'arte con una società borghese, di produzione industriale. Ed era
comprensibile che lo capisse. Non lo vedeva pessimisticamente, lo vedeva
come passaggio dell'arte alla filosofia. Poi però tutte le profezie che
ci sono state nel secolo scorso sul progressismo borghese, sono finite
tutte, perché ci sono stati anche nella storia del pensiero borghese dei
tentativi di uno sviluppo progressivo--io ho voluto molto bene nella mia
vita ad Adriano Olivetti--però sono state sconfitte, sono state
sconfitte come è stato sconfitto l'idealismo di Croce. Signora, noi
intelletuali di questo secolo dobbiamo avere il coraggio di riconoscere
che siamo dei vinti.
-
PASSERINI
- E vedere fino in fondo che cosa significa questa sconfitta.
-
ARGAN
- E vedere fino in fondo che cosa significa questa sconfitta.
-
PASSERINI
- Questo va insieme a una grande lucidità. Cioè Lei continua a essere
fedele all'idea di una critica che vada fino in fondo.
-
ARGAN
- Sì, perché per me la critica è la legge della cultura laica, cioè è
l'antidogmatismo a priori-- Oh sì, io come ho detto, ho fatto la
carriera delle soprintendenze fino al '53, quando ho fatto il concorso
universitario, vinsi la cattedra di Palermo e insegnai a Palermo per
cinque anni. Fu un'esperienza molto bella perché Palermo era una città
allora molto più ingenua che non Roma, quindi gli studenti erano
affezionati. Molti, quando io poi fui chiamato a Roma, mi hanno seguito,
sono venuti a Roma e sono ancora qui impiegati a destra e a sinistra.
Poi nel '59 Lionello Venturi volle che io succedessi sulla sua cattedra
a Roma. Questo avvenne mi ricordo il 12 luglio del '59, e ricordo che
nel pomeriggio io ricevetti telefonate di rallegramenti da tutto il
mondo, sa perché? Perché Venturi, appena avvenuta la mia chiamata è
andato a casa ha telefonato in America, in Svezia, in Olanda,
dappertutto, dicendo che io ero il suo successore. Quindi poi ho
insegnato a Roma dal '59 fino al '70. Qui io poi feci chiamare accanto a
me Cesare Brandi, che era stato fino quel momento direttore
dell'Istituto Centrale del Restauro del quale Le parlerò brevemente,
perché l'Istituto Centrale del Restauro l'ho fondato io nel 1928--'38.
-
PASSERINI
- 'Trentotto.
-
ARGAN
- Nel '38. C'era un congresso di funzionari tecnici delle Sopraintendenze,
io preparai, come cosa puramente accademica, il progetto di un Istituto
Centrale del Restauro, per il trasporto del restauro dal piano empirico
artigianale al piano scientifico. Bottai ascoltò questa relazione e
disse: "Appena ho finito, questo va fatto immediatamente." E fu fatto.
Quando fu fatto mi offrirono la direzione. Io avevo interessi di ordine
più acuto, interprete e lettore del testo che ci fosse allora, per cui
feci il nome di Brandi, fu chiamato Brandi, che ha dato a quell'Istituto
un periodo di prestigio, quasi di gloria, che poi naturalmente--e
stupidamente--questi ministeri hanno distrutto.
-
PASSERINI
- Buttato via.
-
ARGAN
- Buttato via, perché purtroppo il Ministero per i Beni Culturali--questa
direzione, è sempre andata peggiorando. Ma pensi che io ho collaborato
avendo come direttore generale Ranuccio Bianchi Bandinelli!
-
PASSERINI
- C'è stato un declino.
-
ARGAN
- Un declino dappertutto. Pensi all'Università di Palermo-- Declino di
tutto. Lei pensi che quando io lasciai Palermo per Roma-- Nel frattempo
Brandi aveva fatto il concorso, ero io in commissione, e naturalmente
ebbe la cattedra gloriosamente, feci andare a Palermo Brandi a prendere
il posto mio. Poi dopo qualche anno, appena potei, feci chiamare Brandi
a Roma, e quando Brandi venne a Roma, feci chiamare a Palermo Calvesi.
Dopo di che, adesso non lo so nemmeno come si chiami, mi pare che si
chiami Bellafiore, che nessuno sa chi sia. Perché l'università
italiana-- Lei sa, Signora, in Italia, quando si vuole fare una cosa
brutta si trova un nome latino, è vero? E allora si varano con questa
cosa delle cose ignobili, come la Menenio Agrippa e altre infamie romane
del genere. L'università italiana è distrutta da due criteri latini:
l'Ope Legis e l'Ius Loci.
-
PASSERINI
- È vero. No, l'università italiana è veramente distrutta.
-
ARGAN
- Hanno riempito l'università italiana di somari e di imbecili con il
criterio dell'Ius Loci e Ope Legis. Ma naturalmente questo è il criterio
del clientelismo, perché vede, a fare l'uomo politico, il sindaco
soprattutto, mi sono accorto che il clientelismo rende enormemente.
1.3. CASSETTA NUMERO: II, LATO UNO
12 AGOSTO, 1991
-
PASSERINI
- Questi torinesi che Lei ha citato parlando di [Leone] Ginzburg, [Cesare]
Pavese. In particolare Lei si era soffermato su [Enzo] Monferini.
Rispetto all'oggi, che caratteristiche aveva questo gruppo? Che cosa
significava essere antifascista per questo gruppo?
-
ARGAN
- Sì dunque, Le spiego subito. Il leader politico di questo nostro piccolo
gruppo era Leone Ginzburg, che era interamente orientato verso Giustizia
e Libertà, cioè insomma il Partito d'Azione. E questa era la nostra
linea, perché in realtà noi eravamo completamente all'oscuro dei
problemi del mondo del lavoro, dei problemi del mondo operaio. Nessuno
naturalmente nella scuola ci aveva detto nulla. Libri a proposito nelle
librerie e nelle biblioteche non si trovavano, perché tutto quello che
aveva anche soltanto un vago colore socialista o di sinistra era tolto
dalle biblioteche, era introvabile anche nelle biblioteche. Io ho letto
Gramsci dopo la Liberazione, prima era impossibile raggiungere le sue
opere. Ma da questo contatto col mondo operaio ci tenevano lontani anche
i nostri maestri, le nostre guide, gli uomini come [Lionello] Venturi,
come Benedetto Croce. Come, per citarne altri nell'ambito
dell'Università di Torino di quegli anni, uomini pure di altissima
coscienza, come [Erminio] Juvalta, uomini come [Augusto] Rostagni, come
Ferdinando Neri, i quali tendevano, per non so un atteggiamento in fondo
paternalistico che tendevano a sottrarre noi, loro allievi, da quella
che era una lotta politica che avrebbe compromesso evidentemente i
nostri--i nostri studi. Io ho riparlato della cosa con Venturi e con lo stesso Croce, dopo la
guerra, e in un certo senso, soprattutto Venturi, ha perfettamente
riconosciuto. Quello che mi disse Venturi un giorno: "Io non potevo
sapere." Me lo disse anche prima, non all'imperfetto ma al presente.
"Non potevo sapere se tu avevi delle attitudini per fare il politico.
Sapevo che avevi attitudine per fare lo storico dell'arte." E io questo
avevo il dovere di incoraggiare. In loro c'era il pensiero di conservare
vivi dei valori che non si perdessero, che rimanessero per dopo. Questo
è stato soprattutto l'atteggiamento di grande generosità di Lionello
Venturi che, dopo aver lasciato l'università per non prestare giuramento
al fascismo, dopo essere vissuto in esilio, prima in Francia e poi negli
Stati Uniti, immediatamente dopo la guerra, rinunciando anche ad una
carriera che si era ormai formato negli Stati Uniti, tornò a Roma e si
impegnò soprattutto a ricollegare noi del mondo critico e gli artisti al
mondo europeo, a ritrovare, a trovare quel senso di rapporto
internazionale europeo da cui il Fascismo ci aveva esclusi. Questo è
sempre stato l'impegno di questi uomini, che io ricordo con grande
gratitudine, anche se certo non contribuirono alla mia formazione
politica, ma ricordo con grande gratitudine. Penso appunto a Venturi,
che ha dedicato tutto il suo tempo dopo il ritorno dall'America, ad una
azione politica per rimettere l'Italia--riadeguare l'Italia ad un mondo
europeo. Ci fu anche-- Lei potrà vedere una documentazione abbastanza
precisa in una rivista che si pubblicò per anni allora, che era diretta
da Luigi Salvatorelli, in cui io ero incaricato della critica d'arte,
che si chiamava La Nuova Europa . A
introdurmi in questa rivista è stato soprattutto Lionello Venturi.
-
PASSERINI
- Bene, benissimo. Quindi, se posso riassumere, non si trattava tanto di
un'azione militante antifascista, quanto di una serie di discussioni
tematiche.
-
ARGAN
- No, no da parte mia no. Ma da parte di nessuno in un primo momento ci fu
una militanza antifascista, da nessuno di quel gruppo, di quello
specifico gruppo. E questo anche perché, proprio per quel rapporto che
avevamo con i nostri maggiori, la nostra avversione al fascismo è andata
crescendo. Prima è nata come disprezzo per la volgarità culturale del
Fascismo, e in questo fummo incoraggiati da Croce, da Venturi, da tutti.
Successivamente divenne avversione con la guerra etiopica di cui tutti
vedemmo l'ingiustizia e la fondamentale stupidità politica. È diventata
l'avversione, è diventato ribrezzo e rigetto con la guerra di Spagna.
Perché noi vedevamo un paese che era in piena ascesa, che si era venuto
situando tra i paesi, non dico di avanguardia culturale, ma molto
avanzati, che era la prima Spagna repubblicana, e questa cosa ci
indignò. Naturalmente quando poi venne il legame infame con la Germania
nazista e la soggezione ai suoi ordini di persecuzione contro gli Ebrei,
di persecuzione contro l'arte moderna, allora effettivamente la nostra
avversione è diventata anche opposizione reale e ciascuno di noi ha
preso le posizioni politiche che ha ritenuto più opportune. Parecchi
sono rimasti legati a Giustizia e Libertà e poi al Partito d'Azione, io
invece, per il fatto che occupandomi molto di architettura moderna,
avevo inevitabilmente affrontato delle problematiche di ordine sociale,
proprio con [Walter] Gropius, con il movimento del Bauhaus, fui invece
orientato verso posizioni più socialiste. Infatti io entrai nel '40 nel
si chiamava allora PSUP, Partito Socialista di Unità Proletaria, da
quello passai al Partito Socialista di [Pietro] Nenni. Dopo la guerra,
fui anche a un College inglese a Villars, passai al Partito Socialista.
Dal Partito Socialista, avendo avuto un dissenso quando il Partito--fui
anche candidato alle elezioni nel '61, nel '62, ora non ricordo--il
Partito a un certo momento si dichiarò favorevole al finanziamento
pubblico della scuola privata, io allora lasciai il Partito. Passai alla
Sinistra Indipendente con Ferruccio Parri, a cui mi legava una devozione
e un'amicizia profonda. Poi, proprio perché me lo chiese Parri, essendo
allora convalescente di un infarto molto grave, accettai di essere
portato--accettai di entrare nelle liste per il Consiglio Comunale,
senza minimamente pensare, anzi se avessi pensato non avrei mai
accettato, di diventare sindaco di Roma, perché le circostanze hanno
portato che solo sul mio nome era possibile un accordo politico. Facendo
il sindaco di Roma col Partito Comunista, avendo vicino a me compagni
estremamente leali, onesti e impegnati nell'interesse del bene pubblico,
che io ho sinceramente ammirato-- Quando ragioni di salute, sopratutto
di malattia cardiaca, mi hanno costretto a lasciare il Comune di Roma,
sono entrato nel Partito Comunista.
-
PASSERINI
- Benissimo.
-
ARGAN
- Dove rimango ancora nella opposizione con [Pietro] Ingrao
-
PASSERINI
- Questo lo so anche dai giornali. Poi ci sono una serie di domande su
[Pietro] Toesca. Può ricordare il tipo di didattica che svolgeva Toesca?
Usava seminari o soprattutto lezioni?
-
ARGAN
- Soprattutto lezioni. Faceva tre ore di lezione alla settimana e un'ora,
più di un'ora, era un'ora sulla carta, ma in realtà erano sempre due ore
o anche più, di seminari, di incontri con gli studenti, per lo più su
fotografie di opere.
-
PASSERINI
- Ecco, e rispetto al Suo specifico, alla Sua storia, ebbe un ruolo Toesca
nel facilitarLe il posto che Lei ebbe--?
-
ARGAN
- No, non quello, no. Le spiego subito: Toesca mi diede il concorso, vinsi
il concorso, me fu molto onesto da parte di Toesca darlo a me, che non
conoscevo--che venivo dalla scuola di un collega, dalla scuola di
Torino-- E Toesca mi diede la borsa perché giudicò che le mie prove
fossero migliori di quelle degli altri, e mi volle poi come suo
assistente nell'università. Quando io lasciai, vinsi il concorso per
l'amministrazione, fui destinato in un primo momento a Torino, senonché
dopo pochi mesi, essendo andato da Torino a trovare Lionello Venturi che
era a Parigi, la polizia lo vide, mi sequestrò il passaporto, ho avuto
della storie, ma mi hanno trasferito da Torino a Trento. Non andai a
Trento perché Toesca, senza dirmi nulla--io tra l'altro ero in servizio
militare e non potevo nemmeno venire a Roma a protestare--e Toesca
interessò [Giovanni] Gentile, dicendogli che mi mandassero un po' dove
volevano, ma in un posto dove potessi studiare, perché ero portato agli
studi, mentre--disse Toesca: "A Trento non potrebbe studiare che
l'iconografia del San Sebastiano vestito."
-
PASSERINI
- Ho capito. E invece, per quanto riguarda [Roberto] Longhi, si è parlato
di divergenze intellettuali tra Lei e Longhi. La domanda è di questo
genere: esiste in particolare una specificità italiana per cui queste le
divergenze intelletuali erano dovute anche a diverse strategie di potere
intellettuale, nell'accademia, o tutto questo non ha--
-
ARGAN
- Dunque no, bisogna distinguere. Nei miei rapporti con Longhi, va
distinto con molta chiarezza un primo momento, prima e durante la
guerra, e un secondo momento dopo il ritorno di Lionello Venturi. Esisteva tra Lionello Venturi e Longhi un dissenso profondo, che aveva
delle ragioni critiche molto precise, che risalivano al gusto dei
Primitivi di Lionello Venturi, quindi al '26, ma che avevano forse un
altro complesso affettivo, perché il Longhi era molto allievo--stato
allievo prediletto e molto aiutato, di Adolfo Venturi, e Longhi aveva
nei confronti di Lionello figlio, un certo astio--Longhi era un uomo
estremamente sensibile a questi umori. Io ho avuto un periodo di reale
amicizia con Longhi e devo dire che ho imparato molto da lui, più
anziano; posso--benché non lo sia mai stato in titolo--considerarlo uno
dei miei maestri. Dopo il ritorno di Lionello Venturi, essendomi io
legato molto strettamente e Lionello Venturi, questo irritò fortemente
Longhi che mi attaccò anche in un modo abbastanza curioso, ridicolo,
perché mi accusò di aver attribuito a Caravaggio un quadro che non era
suo, che poi lui attribuì a Caravaggio. Io non attribuii, mi limitai a
indicare che nelle antiche guide di Genova era dato come Caravaggio un
quadro che rappresentava la caduta di San Paolo, e che ne avevo
cercato--era impossibile averne la riproduzione perché era nella
collezione della principessa Balbi, che non permetteva, non dava
fotografie, non si doveva vedere nulla di quello che aveva, adesso è
Balbi Odescalchi, a Roma, questo--però io ne trovai una riproduzione al
tratto, me la indicò Toesca per la verità, me la procurai io, lui ne
aveva la notizia--in un volume raro che si trovava a Genova, che Mario
Labò mi procurò, e in questa riproduzione poi pensai che l'invenzione di
questo quadro non poteva essere che di Caravaggio, per il fatto che la
figura del Cristo che piombava dal cielo per parlare con il San Paolo,
reali--illustrando così alla lettera l'Actus Apostolorum: "Et vidim
faciam suam dicentem," e quindi posizione borromea, che poteva essere
facilmente spiegabile con Caravaggio. Ma soprattutto c'era questo Cristo
che piombava, rompendo addirittura i rami degli alberi, dell'albero, e
lasciandoselo dietro spezzato-- E questo, si figuri, poteva avere questa
idea straordinaria se non Caravaggio nell'ultimo decennio del '500. E io
indicai che c'era questo libro e Longhi scrisse che io avevo preso per
Caravaggio un mediocre quadro fiammingo del 1630. Poi pochi mesi dopo,
essendo il quadro uscito dall'oscurità, e avendolo visto tutti, si prese
lui il merito di averlo scoperto. Ma Longhi era un uomo così fatto. Comunque la divergenza di fondo, ecco,
Le posso dire questo, una divergenza di fondo e anche di metodo, che si
è prolungata e in un certo senso si prolunga ancora tra la posizione mia
e quella degli immediati discepoli di Longhi, è che in loro c'è una
tendenza a seguitare la tradizione ottocentesca del conoscitore, che
indubbiamente implica sottigliezza, finezza di giudizio, ma porta
all'individuazione del valore nella singola opera d'arte invece che nel
contesto culturale. Mentre la mia posizione è soprattutto rivolta a
individuare quella specifica cultura che se si esprime visivamente
nell'opera d'arte non ha l'equivalente verbale, anche se questo
equivalente è in un certo senso presupposto, perché proprio quello che
io vorrei, non ho certamente più il tempo davanti a me per poterlo
fare-- Mi piacerebbe studiare, è il valore della presunta presenza, e
quindi dell'assenza della parola rispetto all'immagine.
-
PASSERINI
- Bello, bel tema.
-
ARGAN
- Un po' l'ho studiato parlando di Michelangelo
Architetto.
-
PASSERINI
- Nell'ultimo Suo lavoro?
-
ARGAN
- Sì.
-
PASSERINI
- Dunque adesso ho una domanda piuttosto lunga perché si parte dalle
posizioni espresse da Manfredo Tafuri in Teorie e
storie dell'Architettura , un libro pubblicato nel '68 da
Laterza, dove Tafuri dice tra le altre cose che il Suo metodo implica un
rapporto così profondamente soggettivo con l'opera, che ha un legame più
stretto, disciplinarmente, con la filosofia che con la storia, e
attribuisce questo e un antistoricismo, cioè ne fa insieme causa e
effetto, vede un legame, con l'antistoricismo della storia dell'arte in
Italia. Questo si potrebbe--ha portato, da un lato a un'
interpretazione, se si prende per buona questa tesi, che ciò sarebbe
accaduto, come lo stesso Tafuri dice, sotto la pressione del Fascismo,
cioè come--una fuga dalla realtà storica verso la filosofia, al fine di
sfuggire alla pressione del Fascismo. Vorrebbe commentare tutto questo?
-
ARGAN
- Senta, io non do torto a Tafuri. Vedo però, come del resto lui stesso
vede, questa sua obiezione in una prospettiva storica. Io non credo che
in nessuna disciplina ci siano dei metodi in assoluto perfetti e altri
non perfetti. Io stesso riconosco di avere nei miei studi fatto delle
scelte, seguito delle linee, che forse allora erano inconsapevolmente,
ma più tardi dovetti riconoscere legate ad una volontà di reazione
interna al fascismo. E questo, chi è vissuto sotto il Fascismo, l'ha
provato e lo sa. Tafuri è più giovane di me, non ha vissuto questo.
Vede, qualche volta mi hanno rimproverato--e io stesso ammetto che hanno
avuto ragione a farlo--che in fatto di arte moderna io non ho voluto
parlare mai del "Novecento," del cosiddetto "Movimento del Novecento,"
condannandolo in blocco, rifiutandolo anche se poi in realtà all'interno
ci sono degli artisti che valgono, e che io sapevo che valevano, se io
ne avessi detto bene nel '930, facevo la figura del Fascista.
-
PASSERINI
- Capito, capito.
-
ARGAN
- Mario Sironi, che era fascista dalla punta dei capelli alla punta dei
piedi, me era un uomo onesto e leale, una volta mi disse: "Mi piacerebbe
tanto che tu scrivessi qualche cosa sulla pittura che faccio. Capisco
che non lo puoi fare perché passeresti per Fascista." Bisogna aver
provato cos'era vivere al tempo del Fascismo, e soprattutto chi come me
non ha fatto nulla di eroico contro il Fascismo, non ha fatto una
militanza. Sì, ho fatto poi qualcosa durante la Resistenza come han
fatto tutti, ma allora non ho mai fatto un'azione, come non l'ha fatta
[Norberto] Bobbio, come non l'ha fatta [Massimo] Mila, come non l'ha
fatta nessuno di noi. Ebbene, io riconosco che questo mi--mi portò dei
punti di vista unilaterali. E in un certo senso sentivamo maggiormente,
proprio noi che non facevamo dell'antifascismo reale, perché anche se
facevamo un po' di antifascismo così, legato al Partito d'Azione,
d'intesa con Carlo Levi, Giacomo Debenedetti, Franco Antonicelli che
erano i nostri maggiori, i nostri modelli, e tutto proprio perché non
facevamo quella lotta, sentivamo il bisogno di essere più intransigenti
negli altri punti.
-
PASSERINI
- Però se mi consente, a me, come esterna alla storia dell'arte, sembra
che il legame particolare che c'è nelle sue opere tra la storia
dell'arte e la filosofia, sia una caratteristica molto importante.
-
ARGAN
- Sì, io le ho detto che riconosco legittimo il movente, di Manet sullo
schermo, ho deciso che non avrei più toccato nè un pennello nè una
matita e mi sarei occupato della pittura altrui invece che della mia.
cioè riconosco che questo movente può aver contribuito. Ce n'è stato un
altro fattore che può avere contribuito a darmi fin d'allora questa
tendenza a posizioni filosofiche di interesse per problemi di estetica
generale, ed è il fatto che io da ragazzo avevo cominciato col fare il
pittore, volevo a tutti i costi fare il pittore. Ho fatto per conto mio
il pittore, ho avuto perfino qualche successo perché, essendo in seconda
liceale, mandai un quadro--due quadri alla Promotrice, ne accettarono
uno che fu esposto, ma io avevo sedici anni. Quando, frequentando la
scuola di Venturi, io mi accorsi perché io volevo fare il pittore, mio
padre mi disse: "Senti, per piacere, hai preso la licensa liceale,
prenditi una laurea in Legge." Io mi iscrissi a Legge, però andai a
sentire le lezioni di Lionello Venturi, quando vidi--guardi, proprio lo
posso citare--l'Olympia
-
PASSERINI
- Quindi questa caratteristica della sua opera è stata interpretata in
vari modi, per esempio si è parlato--e me lo ricordano qui gli studiosi
californiani --di Lei come un Decostruzionista ante Litteram.
-
ARGAN
- Come?
-
PASSERINI
- Un Decostruzionista ante Litteram, così Lei è stato definito anche.
-
ARGAN
- Questa è una definizione che mi fa piacere le spiego perché. Perché è
collegata alla lunga riflessione che io ho fatto sul tema hegeliano
della morte dell'arte, orientandomi verso una prospettiva che le dirò in
due parole, che anche quello è un tema che da un lato mi sarebbe
piaciuto svolgere, ma che in un certo senso non ho voluto svolgere. Cioè
che l'arte nel suo complesso, nella sua storia, altro non sia che una
metafora della morte che dà il senso a tutti gli atti della vita. E che
quindi non sia tanto da parlare della morte dell'arte come un
decadimento storico. Questo c'è-- Hegel, che è stato il grande teorico
della cultura borghese del secolo scorso, ha capito perfettamente che lo
sviluppo industriale avrebbe finito per distruggere tutto ciò che
storicamente era l'arte. Siccome io non concepisco un concetto, ma solo
una realtà storica dell'arte mi esprimo così: io non escludo, anche se
debolmente credo, che nella cosiddetta società dei consumi,
dell'informazione, possano esserci espressioni di carattere estetico,
però escludo che possano essere di carattere artistico, cioè che siano
legate a quello che Alain chiamava il "système technique des arts."
-
PASSERINI
- È interessante molto questo discorso, certo. Ma se posso porre ancora
un'ultima questione sempre su questo stesso punto, una impostazione di
questo genere rende particolarmente imprevedibile la trasmissione della
propria scuola a degli allievi, in un certo senso, perché, se non
interpreto male, anziché trasmettere un metodo da un punto di vista
positivistico e tecnico si trasmette.
-
ARGAN
- Ecco, vede, questo è qualcosa che io imparai da Lionello Venturi e che
credo di avere praticato e che credo che sia la ragione per cui molte
persone che si sono formate con me hanno poi avuto una loro
individualità e una loro assoluta. Tafuri non è stato mio allievo, lui
ha fatto architettura, non ha fatto lettere, però Tafuri viene
indubbiamente dalla linea di storia dell'architettura che impostai io
nel lontano 1930. Però, come Venturi all'inizio di ogni corso ci diceva:
"Voi dovete cercare di persuadervi del contrario di quello che io dico."
E io questo ho mantenuto anche nei confronti dei miei studenti. A
proposito di Tafuri, che conserva un orientamento non solo storicistico,
ma anche un po' sociologico, che come tutti coloro che fanno della
sociologia, che fanno una sociologia in senso deterministico. Tafuri
cerca chi abbia sollecitato l'artista a far quell'opera, gliel'abbia
ordinata, abbia influito nella sua formazione, nella linea in cui ancora
Carlo Ginzburg-- A proposito di Piero della Francesca, che quando
scrisse quel libro io mi ricordo che dissi scherzando a Ginzburg: "Ma
insomma, finitela quando parlate di storia dell'arte di cercare
l'imbecille che ha creato un genio." Però, siccome esiste negli storici
quell'idea di una superiorità della storia, storia rispetto alla storia
dell'arte, che sarebbe una storia particolare, e questo cercare un
Baccio Valori, che non era un cretino, non era un imbecille. Cercare un
Baccio Valori che influisce su Piero della Francesca, lo mandava in
visibilio. Io avrei cercato l'influenza di Piero della Francesca su
Valori. Quando i miei studenti ebbero, come tutti hanno avuto intorno al
'68, la mania della sociologia, e io mi trovavo continuamente di fronte
a richieste di tesi di laurea: "I committenti del Botticelli, i
committenti di Tiziano." Io un bel giorno persi la pazienza e dissi:
"Sentite ragazzi, smettetela di cercare di sapere per chi sono state
fatte le opere d'arte. Imparate a cercare contro chi sono state fatte."
E allora questo portò su, perché effettivamente in ogni opera d'arte c'è
una volontà polemica, in tutte anche nelle più assenti. Vede, io in
quello che fu l'oggetto della mia ricerca, proprio per esortazione di
Lionello Venturi, col quale dopo il suo ritorno in Italia, ho avuto--dal
'45, '44 che era, fino al '61 quando lui è morto--incontri molto
frequenti, molto affettuosi, molto molto cari, un bel momento Venturi mi
disse--sapendo anche che le mie posizioni di assoluto scetticismo
religioso--mi disse: "Tu devi fare una cosa, e te la ordino a nome di
Skira, scrivi un libro sull'Angelico." E io scrissi quel libro
sull'Angelico in cui ho cercato di dimostrare, e credo di esserci
riuscito, che l'Angelico non era un mistico né un asceta, ma era un uomo
che faceva una politica culturale a nome del Convento di San Marco, che
aveva un potere culturale molto forte, soprattutto sotto Cosimo I,
Cosimo il Vecchio. E che quindi era in un certo senso il contraltare di
Leon Battista Alberti, e cercava di rendere moderne e attuali delle idee
che erano le idee tomistiche. Infatti l'Angelico, lo trovai io, Angelico
non si era mai chiamato, si chiamava Giovanni da Fiesole. Venne chiamato
Angelico, secondo il Vasari, perché aveva le visioni divine, ma non era
perché era l'interprete di San Tommaso. Era il "pictor angelicus." Era
come il San Tommaso era "il doctor angelicus." Io feci questo libro
dimostrando che lui cercava di realizzare l'estetica di San Tommaso.
Ebbe una strana storia questa cosa, perché ne uscì una recensione molto
bella fatta dal povero Battisti, Eugenio Battisti, su Il Mondo di [Mario] Pannunzio, che era
intitolata "L'Angelico senza aureola." Un monsignore vaticano preparò
una controrecensione per L'Osservatore
Romano --io lo seppi per vie traverse--intitolato: "Scherza coi
fanti," puntini. Senonché questa recensione non uscì mai, perché questo
mio libro cadde sotto gli occhi di Pio XII il quale avendolo letto, capì
che questa tesi dell'Angelico politico culturale gli serviva molto di
più che l'Angelico mistico. E facendo il suo intervento culturale
all'apertura della mostra dell'Angelico in Vaticano nel '55, cioè nel
centenario dell'Angelico, ha fatto una recensione estremamente
laudativa, che procurò una vendita. Skira ne era felice.
-
PASSERINI
- Lei ha menzionato il '68, che era una delle domande che io dovevo farLe,
perché ha già detto--nel corso del racconto che Lei ha fatto sul
rapporto coi suoi studenti e l'impostazione sociologica--ha già detto
implicitamente qualcosa sul '68. C'è qualcosa che Lei ritiene di voler
aggiungere come valutazione del fenomeno complessivo del '68 anche nella
storia dell'arte?
-
ARGAN
- Mah, io l'ho vissuta all'interno dell'università la causa del '68, nei
suoi aspetti positivi ed in quelli negativi. Siamo stati in un certo
senso noi docenti, perché una riforma dell'università era assolutamente
necessaria come sviluppo di una struttura; che era una struttura
assolutamente decorosa, al tempo in cui io fui allievo, fui studente
all'università, ma era vecchia e poi soprattutto non prevedeva
l'afflusso di massa che si è verificato dopo. Però a fare la riforma
all'università dovevano essere i professori e gli studenti, le
rappresentanze degli studenti, ma doveva nascere nell'università, la
riforma, non nel Ministero della Pubblica Istruzione. Cercammo
inutilmente, prima del '68 assai di fare una commissione, un comitato
per questo. Lei conosce il mondo universitario meno--meglio, come me insomma, molto
più giovane il Suo sì. Si facevano questi comitati, ci si trovava in
due. Quindi noi abbiamo avuto questo. Io non ebbi nessuno scontro con gli
studenti, ho avuto dei rapporti eccellenti, anche con quelli che
facevano della contestazione. Non ho mai avuto nessun episodio
sgradevole ma--perché si stabilì un rapporto--intanto io, ripetto ad un
atteggiamento di rigore disciplinare come quello che era stato preso dal
rettore che allora era D'Avac a Roma, io fui dalla parte degli studenti.
Ci fu un mio scontro con D'Avac proprio davanti alla porta della
facoltà, perché il giorno in cui era stabilito che io dovevo fare esami,
c'era l'avviso. Era stabilito dal calendario, io vado, mi vogliono
impedire di fare gli esami perché la facoltà era stata occupata nella
mattinata. E al che, io dissi a D'Avac: "Mi dispiace, caro Rettore, ma
tu hai torto, perché nella facoltà ci sono gli studenti, è logico che
gli studenti occupino la facoltà. Se ci fossero i poliziotti, parlerei
di invasione, ma finché si parla di occupazione le cose mi vanno bene."
Gli esami sono annunciati. Gli studenti lasciano entrare chi vuol andare
a fare l'esame, io gli esami li faccio. Costituisco la commissione nel
modo assolutamente regolare e gli esami li faccio. Costituii la
commissione con Cesare Brandi, che era mio collega--cattedra A e
cattredra B--e con Bonicatti, che era allora mio assistente, due
ordinari e un assistente quindi eravamo tre, era perfettamente regolare.
E lui minacciò di fare annullare gli esami. E io gli ho detto che non
avrebbe potuto farli annullare perché gli esami erano perfettamente
regolari e infatti non potè farli annullare. Purtroppo, almeno a Roma,
il Movimento Studentesco è stato alterato da due componenti che erano
ugualmente negative dal mio punto di vista. Una era la componente
esplicitamente extraparlamentare: autonomi, eccetera. E l'altra invece,
un atteggiamento borghese di quelli che vogliono essere sicuri lasciando
l'università di avere il posto. Infatti quando una volta vennero e
dissero che volevano fare l'esame politico e che volevano il massimo dei
voti e non fare l'esame, io gli dissi: "Non ve lo posso fare, perché ci
sono quegli operai--si vedevano dalla finestra--che lavorano in
quell'edificio, e stanno costruendo quell'edificio, perché non devo
darlo anche a loro il voto? Sono nelle stesse condizioni. È vero? Io mi
rifiuto di fare a voi una preferenza perché non c'é nessun motivo."
Inoltre gli dissi chiaro quando loro sollevanono la questione politica:
"Guardate, io non ho nessuna difficoltà a parlare con voi di politica,
però--c'era il Vietnam--in fatto di Vietnam io non ho delle informazioni
speciali che vi posso dare. Ne so esattamente quanto voi, quindi
possiamo parlarne da buoni amici fuori, quando è finita la lezione.
Siccome io sono pagato, e sono pagato da voi, io la mia lezione la
faccio. Non volete sentirla, uscite. Vi comportate come uno che vada dal
salumaio, chieda del prosciutto, lo paga e poi la lascia sul tavolo e se
ne vada." E ho avuto delle strane soddisfazioni in quel caso, perché
c'era il più accanito, non contro di me, uno insomma il più--che veniva
chiamato il "pifferaio" perché suonava un piffero, il quale quando io mi
ammalai di quest'infarto, veniva due o tre volte alla settimana a
trovarmi, molto dolcemente, veramente da amico, poi l'ho perduto di
vista, ma veniva a trovarmi. Vennero da me i famosi "Uccelli."
1.4. CASSETTA NUMERO: II, LATO DUE
12 AGOSTO, 1991
-
PASSERINI
- Una domanda riguarda il turismo.
-
ARGAN
- La mia bestia nera.
-
PASSERINI
- Ebbe un'influenza, e come si articolò storicamente? Lei ha detto "la mia
bestia nera" e quindi già--
-
ARGAN
- Lei ricorda il saggio di Roland Barthes, sul turismo come uno dei miti
contemporanei? In questo credo che Roland Barthes avesse perfettamente
ragione. Inoltre io imputo al turismo il fatto di impedire, per ragioni
di impossibilità di coesistenza nel medesimo spazio, l'impiego
culturale, la vita culturale delle città. Firenze, Venezia, sono
diventate città impraticabili. Musei che sono diventati impraticabili,
come nella maggior parte dei giorni negli Uffizi, e che insomma
impediscono di svolgere un'attività scientifica attraverso il museo. Il
museo non è né un tempio dell'arte, come una volta si diceva, ma non è
nemmeno un deposito soltanto. Sì, io vorrei dei musei-depositi, il mio
ideale, il mio sogno--capisco che è impossibile, i musei sono di tutti i
cittadini e non soltanto degli studiosi, ma--io li vorrei vedere come le
biblioteche, che si va, si chiede un quadro come in biblioteca si chiede
un libro, viene tirato fuori da una rastrelliera, lo si studia. È
un'utopia, ma questo sarebbe il mio ideale. Però purtroppo non è che
questo mio ideale contrasta o è in lotta con un altro, è schiacciato da
un'idiota politica del turismo che in Italia si è fatta, per cui il
turismo interessa solo i grandi centri e le piccole città vengono
completamente abbandonate, trascurate, ignorate. Nessuno va più ad
Arezzo, nessuno va più a Parma, nessuno va più a Fidenza, che è una
città splendida, nessuno va più a Piacenza che è una città bellissima.
Perché, perché la colpa è del Governo, che col suo ministero del
Turismo--lasciamo stare a chi viene affidato, è quasi come la storia dei
Beni Culturali, che fanno una politica di incremento quantitativo, senza
minimamente--trascurando completamente quel turismo di lungo soggiorno
che era una caratteristica dell'Italia, e che faceva parte del suo
livello culturale. Ma pensi a Shaftesbury che va a vivere a Napoli, a
Shelley che va a vivere a Roma, e che hanno contribuito allo sviluppo
della nostra cultura, e come! Ora, questo turismo di lungo
soggiorno--Goethe che sta due mesi in Italia nell'88, nel '98 e poi ci
torna--questo turismo di lungo soggiorno, questo turismo di studio--ma
questo è colpa dei nostri governi. Io quando si parlò dell'EXPO a
Venezia l'assurda cosa che voleva De Michelis, ho detto: "La cosa da
fare a Venezia-- Perchè a Venezia non si fa un centro
ultrauniversitario, superuniversitario, un Institut des Hautes Études,
un Center for Advanced Study, come Princeton, dove ci fosse raccolta una
bibliografia, una biblioteca completa, dove chi va potesse studiare.
Oggi, se io voglio studiare arte a Venezia, l'unica biblioteca di storia
dell'arte che avevamo è chiusa, inservibile. Palazzo Venezia, abbiamo
l'Hertziana, dobbiamo andare all'Hertziana o all'Istituto tedesco di
Firenze a studiare l'arte veneta. Che cosa si vorrebbe a fare a Venezia
un centro per l'arte veneta di-- Allora avremmo studiosi americani,
inglesi, di tutti i paesi del mondo, che passano un'invernata completa a
Venezia a studiare: questo dovrebbe essere l'incremento che si deve dare
al turismo. Poi facciano anche fino a un certo punto il turismo di
massa, ma con un po' di buon senso. Lei veda per esempio che nelle
nostre città, che muoiono da eccesso di traffico, in parte questo
eccesso di traffico sono questi dannati torpedoni turistici, dove a Roma
bloccano le strade per ore. Lei pensi, quando io ero sindaco a Roma,
venni avvisato che c'era stato l'attacco terroristico contro la sede
della Democrazia Cristiana a via Nicosia. Andai, e c'era un poliziotto
morto e uno ferito molto gravemente che poi morì all'ospedale, che però
era ancora vivo. Non c'era un altro mezzo, lo caricai sulla mia
macchina, e partimmo con i vigili davanti a tutta velocità verso
l'ospedale, quello lì al centro, come si chiama? Adesso mi sfugge,
insomma, lì, proprio al centro--al San Giacomo, che è a trecento metri.
I torpedoni ci impedivano. Io avevo questo ragazzo povero morente sulla
macchina e c'erano i torpedoni di turisti che impedivano. Quando io
cercai in tutti i modi di fare eliminare questa cosa, mi saltarono
addosso dal Vaticano, perché erano tutti pellegrini di questi che
arrivano, li mettono nei conventi vuoti, perché hanno questa--dicono la
crisi delle vocazioni o cosa sia non lo so, hanno i conventi vuoti,
allora li riempiono di questa gente, poi gli danno il canestrino con la
roba da mangiare, che poi questi vanno al Gianicolo, mangiano e buttano
tutta la porcheria sulle aiuole. Io cercai di-- Uh, mi sono saltati
addosso, dicendo che era indegno che un sindaco comunista, dicesse che
le città dovevano essere solo per i ricchi e non per i poveri.
-
PASSERINI
- Ma le origini del turismo di massa, almeno come ispirazione, sono negli
anni '30, già in Italia, perchè pensando ai treni popolari di
Mussolini--anche se poi, in realtà poi--
-
ARGAN
- Sì, ma vede, i treni popolari di Mussolini--povero Mussolini, fu la cosa
meno male che inventò--mi ricordo che anche noi si presero. Ma era cosa
di un giorno. Si partiva la domenica mattina presto, alle due, tre,
quattro del mattino, si tornava a tarda notte. Si stava fuori un giorno.
-
PASSERINI
- Molto più tardi è diventato un flagello.
-
ARGAN
- No, adesso molto. È avvenuto proprio perché si è verificato questo
fenomeno della inquietudine, del volere liberarsi da un ambiente
alienante, non lo so che cosa sia. Venezia è diventata una città dove è impossibile studiare. Oggi non è
possibile studiare l'arte veneta. Non è studiabile matematicamente,
oggettivamente. E questo io trovo che è una cattiva politica, tanto più
che le aggiungo una cosa: questa concentrazione in due, tre città
famose, porta che le minori sono sempre vuote. Insomma, io fui, proprio
quando Toesca--le decevo prima--mi fece liberare da Gentile da Trento e
mi mandarono a Modena, Direttore della Galleria Estense. Splendida
galleria! Splendida galleria, perché è la galleria degli Estensi, che
nel 1507 quando cacciarono via gli Estensi da Ferrara venne a Modena.
Quindi c'è dentro arte ferrarese una delle più belle gallerie italiane.
Non ci va nessuno. La media dei visitatori era di un visitatore al
giorno, fino a pochi anni fa. Me lo disse Bonsanti che fu uno dei
direttori recenti: una persona al giorno! E lo Stato deve pagare un
direttore, deve pagare un economo, deve pagare una dattilografa, deve
pagare dei custodi, deve pagare la manutenzione di un locale-- Ma
questo, capisco che non possa rendere in soldi, ma visto che non può
rendere in soldi, perché non lo facciamo rendere in cultura?
-
PASSERINI
- Vuole ricordare qualche importante progetto realizzato sotto la Sua
responsabilità nel campo delle Belle Arti o della Sovraintendenza?
-
ARGAN
- Be', senta, le posso dire quello che ormai ha più di cinquant'anni la
fondazione dell'Istituto Centrale del Restauro, che feci io nel 1939,
'38-'39. Che fu, devo dire perché è la verità--c'era un convegno dei
funzionari delle Sopraintendenze, e io feci in linea puramente
teorica--ero giovane, avevo ventinove anni, in linea puramente teorica
il progetto di un Istituto Centrale del Restauro, che io desideravo
perché portasse il restauro dal livello ancora empirico-artigianale a un
livello scientifico. Io lessi questa relazione, e [Giuseppe] Bottai, che
era presente: "Questo si fa immediatamente." E me lo ha fatto fare.
-
PASSERINI
- Uomo molto intelligente, Bottai.
-
ARGAN
- Molto intelligente. Senta, io non sono sospetto di simpatie Bottai, io
dico sempre, è il miglior ministro dell'Istruzione che io ho conosciuto
in sessanta anni e più di frequenza. Il migliore.
-
PASSERINI
- Sì, lo so. Possiamo venire sul piano dei rapporti personali? Lei ha
portato, nel campo della storia dell'arte, anche valori non
intellettuali, quello della personalità per esempio. Nei rapporti con
altri studiosi: Giuliano Briganti, Enrico Castelnuovo, Germano Celant,
quali sono state le relazioni personali? Si può parlare di una vera e
propria comunità intellettuale?
-
ARGAN
- No, non si può parlare di una comunità intellettuale, anche se i miei
rapporti con Giuliano Briganti con Castelnuovo, con lo stesso Celant
sono eccellenti come rapporti. Però non c'è nessuna comunità di lavoro,
si è molto isolati. L'ultimo team che c'è stato, e che ha credo
funzionato anche bene, è stato il team mio con Brandi.
-
PASSERINI
- Quindi sono più delle convergenze a due che una communità, che una
collettività.
-
ARGAN
- Sì, ma anche se ne aggiunsero altre perché a noi molto vicino era Cesare
Gnudi. E anche qualche altro che adesso non ricordo, la maggior parte
sono morti. Ma veda: io posso ricordare il mio rapporto con Cesare
Brandi. Lei pensi che in fondo noi eravamo considerati un po' i due
cavalli di punta. E abbiamo--entrati con lo stesso concorso--lui aveva
tre anni più di me. Quando io fui cacciato via da Torino, potei andare a
Modena perché Brandi, che era Ispettore alla Sopraintendenza di Bologna,
ma aveva in più la direzione della Galleria di Modena, la lasciò a me
perché io potessi venire a Modena. Quando io feci l'Istituto Centrale
del Restauro, e Bottai mi fece proporre di prenderne la direzione, fui
io a volere Brandi, non per ragioni di amicizia, ma io avevo interessi
prevalentemente teorici, Brandi era uno straordinario interprete dei
testi, era la persona che ci voleva. E poi i nostri rapporti sono
rimasti sempre affettuosissimi. Quando lui era direttore dell'Istituto
del Restauro, e aveva avuto dei dissensi con la direzione generale, fui
io a persuaderlo a fare il concorso universitario. Ero io in
commissione. Gli ho dato io la cattedra. L'ho fatto chiamare alla
cattedra di Palermo che io in quell'anno, lasciavo nel '59. Poi, appena
possibile, lo feci chiamare all'Università di Roma dove poi abbiamo
lavorato vicini, gomito a gomito, finché lui andò in pensione prima di
me, perché era più vecchio. E ci fu questo rapporto. Non ci fu mai un
urto. E non avevamo idee criticamente molto vicine.
-
PASSERINI
- Un sodalizio intellettuale che era una possibilità di dibattito anche.
-
ARGAN
- Che era una possibilità di dibattito, ma nello stesso tempo anche di
difesa dei valori.
-
PASSERINI
- Ancora sul piano dei rapporti personali. Lei ha accennato nella prima
intervista a un'influenza anche intellettuale che ebbe Sua moglie [Anna
Maria Mazzucchelli] suggerendole un campo di studi.
-
ARGAN
- Sì. No, non fu lei completamente a sugge-- Sì, in un certo senso sì. Le
spiego subito. Nel 1930 era l'anniversario, non mi ricordo più adesso
che numero di anniversario, della morte di Antonio Sant'Elia,
l'architetto futurista. Io avevo, in quell'anno essendo ancora studente
all'università, pubblicato il mio saggio sul Palladio, nella rivista di
Venturi. Venturi mi disse "Bèh, ti sei occupato di architettuta, fammi
un articolo su Sant'Elia." Io feci questo articolo su Sant'Elia, che
interessò molta gente, e interessò mia moglie, la quale lavorava con
Edoardo Persico alla direzione di Casabella , nello studio di Giuseppe Pagano, di cui io ero
anche amico. Io però non la incontrai se non dopo la morte di Persico. I
rapporti si sono avvicinati perché lei mi scrisse una lunga lettera per
annunciarmi la morte di Persico, raccontandomi di lui, parlandomi di
lui. Io poi andai a Milano, e poi siamo diventati marito e moglie. Lei
lasciò ogni attività: fu una cosa che a me dispiacque molto, ma lei
lasciò ogni attività, poi si orientò verso strane cose, interessi
culturali, ma strane, molto lontano dal-- Però fu senza dubbio lei che,
partendo da quel mio saggio, che però mi aveva chiesto Venturi, continuò
a chiedermi collaborazioni per Casabella ,
e poi naturalmente, essendoci sposati, si parlava continuamente, si
frequentavano architetti. Per cui a occuparsi del Bauhaus fu mia moglie,
che capì che io avevo bisogno di occuparmi del Bauhaus e di scrivere del
Bauhaus negli ultimi anni del Fascismo, quando io ero orientato verso
forme di socialdemocrazia più che di estrema sinistra, e poi capii che
questo pensiero di un'arte che ricostruiva una società, entrava in
quella problematica ansiosa della ricostruzione che ci prese tutti
immediatamente dopo la guerra. E vede, la nostra vicenda intellettuale è
stata quella di aver sentito in questo, proprio guidati da uomini come
Venturi, la necessità di impegnarsi ad una ricostruzione, a ritrovare
dei rapporti con il mondo europeo. Ci siamo impegnati a fondo in questo.
Naturalmente una ricostruzione non era possibile, e quando noi abbiamo
cercato, abbiamo conosciuto l'Europa che per noi era un'ideologia, ci
siamo accorti che l'Europa era un paese pieno di dolore, di strazio, e
di contrasti, quando a noi pareva il migliore dei mondi possibili. Ecco
perché dal momento della ricostruzione, che noi--questo è un passaggio
un po' strano--questo bisogno di ricostruzione ci portò al superamento
del crocismo che era uno star fuori da tutto questo. Ci avvicinammo
invece al fenomenologismo, soprattutto a [Edmund] Husserl, perché
eliminava--libro che ebbe su di me molta forte influenza fu: La crisi delle scienze europee di
Husserl--ci orientava verso la fine della concezione fondamentalmente
ancora teologica di un sistema culturale unitario con un vertice,
eccetera. E ci portò invece a pensare all'autonomia delle discipline,
una relazione dialettica delle singole discipline, e quindi ciascuna
singolarmente instituzionalizzata. Da questo tentativo di vedere in
Husserl, proprio anche perché naturalmente sapevamo tutta la storia di
Husserl perseguitato dal Nazismo, le sue opere salvate in estremis da
quella monaca che le portò in Belgio, l'università del Belgio--
-
PASSERINI
- Lovanio?
-
ARGAN
- A Lovanio. Le portò a Lovanio. Però questo ci portò poi immediatamente
verso la filosofia della crisi, ci portò verso [Jean-Paul] Sartre.
Mentre invece la mia reazione è stata sempre molto forte. Ho sempre
trovato insopportabile [Martin] Heidegger. Vede, Heidegger proprio è
quello che mi ha insegnato una cosa che è stata un po' una delle regole:
io ho sempre pensato che ogni politica costruita su una filosofia è
pessima. Ogni filosofia costruita su una politica può essere buona. E
questa è stata un po' la ragione della mia inclinazione marxista.
-
PASSERINI
- Capisco. Io credo di poterLe fare una domanda ancora.
-
ARGAN
- Mi dica, Signora.
-
PASSERINI
- Lei è uno dei pochissimi che ha studiato sia l'arte antica sia l'arte
contemporanea, e per quanto riguarda l'arte contemporanea, si può fare
una lunga lista di artisti che sono stati oggetti del suo studio: da
[Alberto] Burri, a [Giuseppe] Capogrossi, a [Pietro] Consagra, a
[Ignazio] Gardella, a [Mario] Mafai, Martini.
-
ARGAN
- Sì, e poi per stranieri [Henry] Moore, Picasso.
-
PASSERINI
- E Lei ha detto, da qualche parte: "L'ho fatto seguendo le mie
preferenze." Ora, riflettendo a posteriori su questo, si può dire che in
qualche modo la partecipazione del suo discorso critico è intervenuta
nella creazione? O in altri termini, Lei riconosce la funz--la fruizione
da parte del critico come momento fondante della creatività nell'arte
contemporanea?
-
ARGAN
- Sì. Non solo, ma veda: qui entra un'altra cosa che io avrei voluto fare,
cominciai a fare e poi non feci. Io a un certo momento mi ero proposto
di scrivere una storia della pittura dell'Illuminismo, e scrissi infatti
un lungo saggio su [William] Hogarth, su [Thomas] Gainsborough, scrissi
su [Joshua] Reynolds ma cose, articoli, saggi, non--volevo fare un libro
sulla pittura dell'Illuminismo inglese. Ora, nella pittura
dell'Illuminismo inglese, che è la prima pittura decisamente laica, cioè
assolutamente priva di problematiche religiose. Reynolds dice
chiaramente che--be', naturalmente, perché con l'Illuminismo la critica
diventava l'asse del pensiero, quindi lui dice che il pittore fa della
critica. Le scelte che fa un pittore, tutta l'attività di un pittore è
la scelta del meglio, quindi procede attraverso delle scelte che sono
tutte scelte critiche. Questo l'ha scritto Joshua Reynolds nel
1780-82-83. Ed è tutto il pensiero inglese che è orientato in quel
senso. Questa è una cosa che mi rincresce di non avere concluso, una che
ho fatto studiare, parecchie cose sono già state pubblicate da miei
studenti e studentesse in argomento. Perché la nascita della critica
d'arte per conto mio é con Richardson, nel 1718 o '19. Lui scrive che di
tutte le attività umane, l'arte è la più redditizia perché col minimo di
costo produce il massimo di valore. Un quadro cos'è come valore
materiale? Un pezzo di tela, un po' di colore, un telaietto di legno. È
invece il quadro. Sennonché la conseguenza è che il valore è il processo
dell'opera. È il processo dell'opera. E quindi questo processo, questo
fare, come fare intellettuale, diventa fondamentale. E questo fare, nel
pensiero di Reynolds, prima con la distinzione di pittoresco e sublime,
che è fondamentale, che è una cosa di un interesse estremo, perché
questo--in questo momento ho il buco nero, padre e figlio, nati in
Russia--
-
PASSERINI
- Nati in Russia?
-
ARGAN
- Che fece la distinzione di pittoresco e sublime, nel 1750. Che fa
addirittura delle cose che--dice, scrive questo pazzo, che in questo
momento il nome--
-
PASSERINI
- Adesso Le verrà in mente.
-
ARGAN
- Scrive che per fare un paesaggio bisogna fare una macchia sulla
carta--[Anthony] Blunt--e poi lavorare su questa macchina, e che allora
viene fuori un elemento di natura. Una cosa quasi da psicanalisi. Che
poi è quello che ha ripreso Kant nel teorizzare in quella teorizzazione
per me deliziosa del pittoresco e del sublime, che lui chiama "bello" e
"sublime," del bello e del sublime, che senta, io me lo sono riletto
recentemente, mi sono accorto di una cosa, che è un libro filosofico
pieno di umorismo, dalla prima parola fino all'ultimo, un umorismo di un
livello--Kant non c'è da aggiungere altro--un umorismo che lo porta a
dire: "I capelli biondi sono il bello. I capelli bruni sono il sublime."
-
PASSERINI
- Mi piacerebbe, mi ha fatto venir voglia di rileggerlo.
-
ARGAN
- Oh, sì, lo rilegga con questo spirito, Lei si accorgerà che è un libro
interamente scritto consapevolmente, volontariamente e filosoficamente
ma umoristico, con un humor straordinario.
-
PASSERINI
- Molto bene. Io do un'occhiata rapida qui. Mi sembra di averLe fatto
tutte le domande più importanti. Forse solo una battuta: in Italia
qualcuno ha mai avuto il potere che ebbe in Francia André Chastel?
-
ARGAN
- Ma senta, forse quel qualcuno sono stato io. Io ho avuto il potere. Non
lo nascondo. Ho avuto il potere nell'ambito dell'amministrazione delle
Belle Arti. Lo esercito ancora, in forma polemica, dall'opposizione. Ma
adesso, anzi, io poi La informerò, perché siccome io ho dovuto
accettare, ma lo faccio anche volentieri perché è una ripresa di lavoro.
Sa, adesso per me il lavoro proprio di creare un libro non lo faccio
più, non ho più la forza fisico-mentale per farlo. Faccio cose di lavoro
tranquillo che un po' anche mi divertono, come questo che sto facendo
adesso, di questa traduzione del Fromentin.
-
PASSERINI
- Ah sì?
-
ARGAN
- Del Le maître d'autrefois , che è un libro
delizioso, che io ho sempre amato. Siccome Einaudi fa queste traduzioni
di scrittori tradotti da scrittori, allora ha ingaggiato, e ci siamo
trovati d'accordo cioè, le scelte le abbiamo fatte noi: Giovanni Macchia
fa Baudelaire, io faccio Fromentin. Mi diverte molto. Son venuto qui
proprio per stare tranquillo.
-
PASSERINI
- Sta lavorando a questo adesso?
-
ARGAN
- Sì. E Lei pensi che da quando sono venuto qua, che sono venuto il primo
di agosto, a oggi, ne ho tradotto un centinaio di pagine. Ed è
delizioso, per--poi c'è una serie di ragioni per cui mi interessa e mi
appassiona. Perché è un libro straordinario, è vero? Scritto in modo
pesante, antipatico, fastidioso, ma tutta l'analisi sulla formazione
della pittura olandese è splendida.
-
PASSERINI
- Lo leggerò con molto interesse. Lei mi stava dicendo che mi avrebbe poi
informata di questo suo lavoro, che adesso è disposto a fare ma--
-
ARGAN
- Ah, sì, e faccio anche quello, lì come ministro della Cultura,
ministro-ombra della Cultura del Partito anzi: deve essere uscito un mio
articolo sull'Unità giorni fa che io non
ho visto, perché ero qua, credo il quattro, o cinque.
-
PASSERINI
- Ah sì? Devo controllare.
-
ARGAN
- In cui ho scritto--avevo scritto articoli prima, per dire le colpe dei
ministri, del governo, dei burocrati--adesso parliamo delle colpe
nostre, di storici, di studiosi, che non--hanno preferito fare le
"Maddalene" invece le "Marte." "Maddalene" talvolta ancora peccatrici
anche. Adesso ho fatto già delle riunioni, a cui sono venuti in molti,
per quanto indette io credo di fare anche l'interesse oltre che della
cultura, anche quello del mio partito. Richiamare intorno a questo
partito. Perché insomma oggi il problema della cultura, di una politica
culturale, è estrememente importante, perché c'è una paurosa tendenza
alla privatizzazione. Ora noi vogliamo non solo come cautela
patrimoniale, per cui quello che è del paese non deve diventare di un
ceto, ma anche proprio tutti i nostri studi. Si ritorna alla distinzione
tra noi e i longhiani. Sono rivolti a pensare alla contestualità delle
opere: quindi il tessuto culturale, l'unità che dev'essere salvaguardata
nella sua interezza del patrimonio. Non delle singole opere, ma del
patrimonio. Adesso farò, ai primi di ottobre, perché in settembre ho da
farmi due piccole operazioni: una cambiare il pace-maker, una
stupidaggine, e l'altra spero di potermi fare la cataratta, per potere
vedere meglio. Ma ai primi di ottobre faccio queste riunioni invece
proprio dei professori universitari, non verranno.
-
PASSERINI
- Non verranno?
-
ARGAN
- Non lo so. Be' alcuni verranno, forse molti. Dei sopraintendenti molti
vennero, sì, che poi loro a venire rischiavano anche qualcosa che i
professori universitari non rischiano. Comunque io li conoscerò, poi
parliamo dei nostri compiti, delle nostre responsibilità e delle nostre
colpe. È inutile che protestiamo che i burocrati non sanno conservare le
opere d'arte, ma noi gliele lasciamo in mano loro. Ora, io ho visto che
per quanto sia difficile--difficoltà ce sono in tutti i campi e in tutte
le cose--un po' di potere, chiunque di noi lo ha in mano: anche uno
spazzino, ha un po' di potere in mano. Noi professori universitari un
po' di potere lo abbiamo, ne abbiamo molto, e quindi dobbiamo
esercitarlo. Io credo di averlo esercitato perché, in fondo, nella mia
vita, ho sempre avuto posizioni direttive, mai avuto posizioni
subordinate. Sia nel ministero come ispettore centrale, quando
l'ispettorato centrale era qualcosa che funzionava, e funzionava molto
bene. E funzionava attraverso un rapporto collegiale. Guardi che
Bertelli ha trovato negli archivi di Brera delle mie lettere alla
Wittgens, vecchie lettere alla Wittgens, in cui si discuteva: il
restauro bisogna farlo così, questo e quest'altro, in cui c'era questo
rapporto veramente di studiosi. Tutto questo è perduto. È distrutto.
Quindi io posso dire di aver esercitato--in questo fu anche Venturi che
mi esortava ad esercitare in ambito universitario, a esercitare--un
potere.